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domenica 24 novembre 2024

CATERINA SFORZA : il silenzio della forza




“Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo” fu una delle ultime cose che disse. La città è Forlì, la giovane donna è Caterina Sforza. Venne in Romagna poco più che bambina, sposa di Girolamo Riario che avrebbe ottenuto la Signoria di Imola e di Forlì. Di seguito si riassume in mille parole la sua vicenda. Caterina, figlia naturale del duca di Milano, aveva appena dieci anni quando andò in sposa al marito trentenne. Nel luglio del 1481 la coppia prenderà possesso di Forlì chiedendo fedeltà, Riario tolse tasse e dazi sul grano e su altro, come si conviene. Lo zio Papa morì e il nuovo Signore dovette ben presto rimangiarsi la parola battendo cassa. Il malcontento montò specialmente perché la sua iniziativa fiscale non risparmiava le famiglie più ricche né la nobiltà. Nel giro di pochi anni, quindi, furono orditi numerosi intrighi e congiure: nel 1487 un tentativo di rivolta fu sedato grazie a una soffiata che informò la giovane donna salvando la situazione.

L'anno successivo, però, il colpo andò a segno: la trama della congiura era stata ordita dall'opulenta famiglia degli Orsi con l'appoggio degli Ordelaffi e del Papa (Innocenzo VIII) nonché di Lorenzo de' Medici che ancora aveva il dente avvelenato per la congiura dei Pazzi. Insomma, l'uomo aveva attratto a sé gli strali dei forlivesi ricchi e poveri, e dei potenti non solo locali. Il 14 aprile 1488 Girolamo Riario fu assassinato a pugnalate e defenestrato. Il Palazzo del potere fu messo a sacco mentre la moglie Caterina con i figli fu incarcerata. La giovane donna, astuta, riuscì a sfruttare la sua arguzia per riprendersi la Rocca di Ravaldino. Questo passaggio è spesso raccontato con toni epici e solo verosimilmente storici: Caterina, di nuovo padrona della sua rocca, rispose alle minacce di ritorsione sui figli mostrando le sue parti intime gridando: “Impiccateli pure, qui ho lo strumento per farne altri”. Avvenne tutto così in fretta che i congiurati gioirono per due settimane: il 29 aprile, Caterina Sforza avocò a sé la reggenza della città dimostrandosi una valentissima donna d’arme.

La vendetta della Tigre contro i congiurati fu tremenda. Secondo la sua volontà, fu raso al suolo un isolato sontuoso nel cuore di Forlì appartenente alla famiglia dei congiurati (gli Orsi), il cui capo, anziano, fu costretto ad assistere alla distruzione e fu giustiziato in piazza. Il “guasto degli Orsi” comportò macerie e lo scempio di una famiglia ricca e influente. Da quel momento, Caterina, in nome del figlio Ottaviano Riario, governò Forlì e Imola diventando un crocevia della storia rinascimentale: il suo piccolo Stato faceva gola a molti. Potenziò così le strutture difensive del suo dominio, in particolare si concentrò sulla Rocca di Ravaldino dove costruì il Paradiso, il suo palazzo. A questo punto Caterina s'era innamorata sul serio. Di Giacomo Feo, un ventenne che sposerà in segreto. Restarono insieme per quattro anni avendo tutti contro, figli compresi; il giovane marito, borioso e vanesio, cadrà ucciso in un agguato nell’estate del 1495. L’organizzatore dell’attentato era convinto che il primo ordine di uccidere Feo fosse venuto proprio da Caterina. Ma ella era all’oscuro di tutto e la vendetta fu terribile. Perseguitò le famiglie traditrici, perfino i bambini in fasce, perfino le amanti, con una crudeltà così folle che si alienò ogni simpatia del popolo.


Nel 1497 s’innamorò di un altro uomo: Giovanni de’ Medici detto “Il Popolano”. Dal matrimonio, nel 1499 nacque un figlio che poi sarà noto come Giovanni dalle Bande Nere, padre di Cosimo I de’ Medici, il primo Granduca di Toscana. Caterina non dimenticò le sue abilità nell’arte della guerra e saprà difendere il suo territorio da Venezia tanto da meritarsi ancora una volta l’appellativo di Tigre di Forlì. Tuttavia, la sua storia si avvicinava all’epilogo. Ecco un giovane condottiero, figlio del papa regnante: Cesare Borgia, detto il Duca Valentino. Lo scontro fu epico, preceduto da un’ambasciata di Machiavelli che raggiunse Caterina Sforza a Ravaldino per convincerla di un’alleanza con Firenze contro Pisa, ma ella lo congedò tra vaghe promesse. Ebbene, arrivò il giovane Borgia e Caterina non offrì particolare resistenza: prima cadde Imola, poi si arrese Forlì. Intanto, le truppe del figlio del Papa si dedicavano ai saccheggi e ai soprusi comuni a quel tempo e Forlì, dal 19 dicembre 1499, è interamente controllata da 14 mila invasori. I forlivesi potenti o erano già saliti sul carro del vincitore, o studiavano la situazione non lesinando inchini al Valentino.

E poi c’era lei, Caterina, rinserrata nella sua rocca, città-Stato, con il suo piccolo esercito. Il Duca stesso, immaginandosi una Romagna Stato con lui, per evidenti raccomandazioni, a capo, iniziò a farsi benvolere dal popolo, rispondendo alle denunce dei soprusi che i suoi soldati stavano continuando a perpetrare. Dopo un Natale passato in famiglia, con il cardinal cugino Giovanni, legato di Bologna, Cesare Borgia diede la buona notizia al Papa suo padre della presa di Forlì, anche se la Rocca era ancora di Caterina. La battaglia definitiva iniziò nei giorni successivi, tra bombardamenti e trattative. La “guerra lampo”, però, non finì nei tempi previsti, Caterina resisteva, e iniziarono a scoprirsi i nervi del Borgia. L’assalto finale ebbe luogo il 10 gennaio: le bombarde lanciarono proiettili giorno e notte contro Ravaldino. Finì male per Caterina che da sola aveva affrontato i quindicimila armati e le artiglierie del Re di Francia, forse per demerito di uno dei suoi. Borgia vinse, ma per poco, il 12 gennaio 1500. Caterina, dapprima imprigionata, fu portata a Roma, quindi finì la sua esistenza nel 1509 a Firenze a 46 anni. Negli ultimi tempi aveva approfondito il suo interesse per la medicina, l’alchimia e la cosmetica, raggiungendo grandi risultati anche in questo campo di ricerca.


https://www.forlitoday.it/blog/il-foro-di-livio/Storia-caterina-sforza.html






Caterina Sforza, la "Contessa Guerriera", rimane una delle donne più straordinarie della storia del Rinascimento. La sua vita, segnata dalla tragedia, dalla lotta e dalla resilienza, è una testimonianza del potere e dell'influenza che una donna, anche in un contesto patriarcale, può esercitare. La sua storia non è solo quella di una donna che ha combattuto per la sua famiglia e i suoi possedimenti, ma anche quella di una persona che ha lottato per il proprio onore, per la propria libertà e per la propria indipendenza.


Caterina è una figura che non smette di incantare, ma anche di scuotere, per la forza, la determinazione e il coraggio con cui ha affrontato le sfide della sua vita. Guardarla attraverso gli occhi di una donna, oggi, suscita un misto di ammirazione e riflessione profonda. Le sue scelte, la sua resistenza, il suo sguardo tenace verso il mondo maschile che la circondava, ci parlano di un'incredibile lotta non solo per la sopravvivenza, ma per il diritto di essere al comando del proprio destino.

Viviamo in un'epoca che purtroppo è ancora impregnata di disuguaglianza, ma Caterina visse in un contesto ben più ostile: una donna nel Rinascimento, in un mondo che la vedeva come una pedina nelle mani degli uomini, una "proprietà" da sposare, da difendere o da usare per alleanze politiche. Eppure, quando il destino le tolse tutto — marito, alleanze, e persino la sicurezza della sua terra — lei non si piegò. Al contrario, con straordinario coraggio, assunse il ruolo di comandante, di leader, di guerriera.

Le sue battaglie non furono solo politiche, ma anche interiori. Ogni giorno, Caterina ha dovuto affrontare il peso della sua condizione di donna in un mondo che minimizzava e ignorava il suo valore. Ogni passo che ha fatto nel mondo della guerra e della diplomazia è stato un atto di sfida. Un atto che ha dovuto compiere sapendo che ogni errore, ogni cedimento, sarebbe stato usato contro di lei, non solo da chi le era nemico, ma anche dalla società stessa, che non tollerava che una donna avesse così tanto potere.

Eppure, quel suo sguardo implacabile, quella sua forza che la faceva chiamare "la leonessa di Romagna", non sono frutto di un atteggiamento ostentato. Non era una donna che cercava la guerra, ma una donna che ha scelto di combattere quando non c'era altra via, quando ogni altra porta era stata chiusa. La sua determinazione nasceva dal desiderio di proteggere ciò che amava — la sua famiglia, la sua terra, la sua identità — ma anche dalla necessità di affermare la sua umanità in un mondo che le diceva continuamente che lei non aveva diritto di esistere al pari degli uomini. Caterina ci insegna che, quando ci viene tolto tutto, non resta che la nostra capacità di reagire, di resistere, di rialzarci anche quando il mondo ci spinge a cedere.

La sua vita è anche un racconto di solitudine e di sacrificio. La madre di tre figli, vedova giovane, costretta a portare sulle sue spalle un onere che pochi uomini avrebbero avuto il coraggio di affrontare. Eppure, non si fermò. Non si fermò neppure quando venne imprigionata, umiliata, quando la sua città fu presa d'assalto. Caterina non si rassegnò mai. La sua lotta non fu solo per il potere, ma per l'onore, per la dignità, per il diritto di essere ascoltata e rispettata in quanto donna, madre, e leader.

Se oggi ci troviamo a lottare, ognuna di noi, per il nostro spazio nel mondo, per la nostra voce, per il nostro corpo, Caterina ci ricorda che anche in un contesto di infinita ostilità possiamo risvegliare la nostra forza interiore. La sua vita ci insegna che non siamo mai sole, anche quando ci sembra che il mondo stia per schiacciarci. Caterina ci invita a non avere paura di mostrarci per ciò che siamo: forti, fragili, complesse, ma mai pronte a soccombere.

Come donna, riflettere su Caterina è un atto di potere. Non un potere che annienta gli altri, ma un potere che nasce dal profondo, dalla consapevolezza di noi stesse, dalla nostra capacità di scegliere, di resistere, di amare, di costruire e, quando necessario, di distruggere ciò che ci limita. Caterina Sforza ci insegna che anche nella solitudine più buia possiamo trovare la nostra forza. E che, ogni volta che una donna sceglie di combattere, non lo fa mai solo per se stessa, ma per tutte le altre che sono venute prima di lei, e per quelle che verranno dopo.


Caterina , nella solitudine della sua stanza o nei silenzi notturni del castello, deve aver saputo, come tutte noi, che il peso del mondo ti si fa sentire più forte quando sei da sola, quando nessuno ti vede, quando nessuno ti ascolta davvero. Immagino che fosse così anche per lei, quando non c’erano più mani da stringere o parole di conforto. Quando la battaglia non era più fuori, sul campo, ma dentro, nell’intimità dei suoi pensieri.

Mi chiedo se, in quei momenti, Caterina si fosse mai sentita stanca. Stanca di lottare, stanca di essere sempre quella che non si piega. Perché la forza, a volte, non è solo una scelta, è una necessità. Non è solo il coraggio di affrontare un nemico o di comandare una truppa; è quella forza che ti fa alzare ogni giorno, che ti fa andare avanti quando ti senti sola, quando il dolore ti scuote, quando la paura ti sussurra che forse sarebbe più facile arrendersi. Ma Caterina non lo fece mai. Non perché fosse invincibile, ma forse proprio perché sapeva quanto fosse vulnerabile.

Sapeva che, come tutte le donne, la sua vita sarebbe stata scritta da qualcun altro, che le sue scelte sarebbero state analizzate, giudicate, e spesso ridotte a qualcosa di superficiale: una donna, una madre, una vedova che gioca con il potere. Ma, nel profondo, dove nessun altro poteva arrivare, Caterina lo sapeva: il suo vero potere non era quello di governare terre o comandare uomini. Il suo vero potere era nella sua capacità di sopravvivere, di fare di ogni sconfitta una nuova occasione, di non lasciarsi schiacciare da un mondo che cercava continuamente di metterla a tacere.

Mi piace pensare che, mentre il mondo la guardava da fuori, lei nel suo cuore si domandava come fare, come andare avanti, come trovare la forza per il passo successivo. Eppure non si fermava. Non si fermava mai, anche quando la sua vita sembrava sgretolarsi attorno a lei. E non lo faceva solo per sé, ma per i suoi figli, per la sua famiglia, per il suo nome. Caterina aveva un altro tipo di amore, forse più difficile da capire: quello di chi sa che la lotta non è mai solo per il presente, ma per qualcosa di più grande, che supera la propria vita, che dura oltre.

E poi c'è quel momento in cui, presa dalle circostanze, ha visto la sua città cadere, il suo mondo frantumarsi, e ha scelto di non cedere. Non lo fece con la spavalderia di chi sa già di vincere, ma con la consapevolezza che cedere avrebbe significato annullarsi. Ma quella consapevolezza non veniva da una forza sopraffina, ma dalla consapevolezza delle sue fragilità, dalla necessità di restare intatta dentro, nonostante tutto. Perché, in fondo, Caterina sapeva che la vera lotta non era mai con gli altri, ma con se stessa. La battaglia per non cedere, per non perdere la propria identità, per non diventare qualcun altro solo perché la vita ti spinge a farlo.

Ecco, vedo Caterina come una donna che ha imparato a convivere con la propria solitudine e con la propria forza. Non una guerriera senza paura, ma una donna che ha dovuto scegliere ogni giorno di andare avanti, anche quando tutto sembrava dire il contrario. Che ha dovuto fare spazio in sé per la paura, il dolore, la rabbia, ma anche per quella piccola scintilla di speranza che non la abbandonava mai. Forse, alla fine, non era la sua armatura a renderla forte, ma proprio quella vulnerabilità che la rendeva umana, che le permetteva di sentire la gravità della perdita e il peso della solitudine, senza però lasciarsene sopraffare.

Caterina non cercava la gloria. Forse nemmeno la vendetta. Cercava solo di non spegnersi, di non farsi sopraffare dal mondo che non le dava scelte, che la costringeva a combattere ogni giorno, a non piegarsi mai. E mentre gli uomini la vedevano solo come una sfida da conquistare o un ostacolo da abbattere, lei sapeva, in fondo, che la sua vera forza era quella di non cedere mai alla tentazione di arrendersi. E lo faceva, perché sapeva che, a volte, sopravvivere è già una vittoria.

A noi, oggi, resta solo il compito di non dimenticare questa lezione silenziosa di Caterina: che la lotta più grande non è quella che vedono gli altri, ma quella che si svolge nel nostro cuore, ogni volta che dobbiamo scegliere di andare avanti, anche quando sembra che non ci sia più nulla da perdere.


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