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martedì 27 maggio 2025

La stanza che ho scelto

 



A te, che hai scelto il silenzio anziché lo sforzo di farti capire.
Che hai preferito la calma alla vertigine, la solitudine alla confusione, la chiarezza alla speranza mal riposta.

Non è stata una chiusura.
È stata una direzione.

Hai imparato che l’amore — quello che valga la pena — non può essere un continuo tradursi, spiegarsi, correggersi.
E che il cuore non è una cosa da concedere ogni volta che qualcuno lo chiede con gentilezza apparente.

Così, hai smesso.
Non per cinismo, ma per rispetto.
Hai deciso che in questo tempo della vita, non amare è un modo per non dimenticarti di te.

C’è forza, in chi sa stare sola.
In chi non si scusa per il proprio silenzio, e non teme le sere senza voce al telefono.


Non chiudi, ma non insegui.
Nel frattempo, coltivi la tua pace.

Fai ordine nei pensieri.
Ti ascolti senza giudicarti.
E in tutto questo c’è  bellezza .
Tua. Intatta. Indiscutibile.

 non ti chiami fuori dalla vita, ma solo da ciò che non le assomiglia:
che il tuo spazio resti sacro.
E il tuo silenzio, una forma di musica.

Non ho più voglia di dovermi tradurre in un linguaggio che non mi somiglia.
Di diventare leggibile per chi non sa leggere, di farmi piccola per entrare nel riquadro di qualcun altro.

Non c’è rancore in questa distanza.
Solo quiete.
Una specie di spazio pulito, dove finalmente respiro.


Ho imparato che non tutto quello che scalda è casa, che non tutto quello che vibra è vero.
Che a volte, stare bene con sé stessi non è un attimo tra due relazioni, ma un luogo dove si resta — perché ci si sta bene.

Non mi mancano i messaggi, le attenzioni, le mani intrecciate per strada.
Mi manca, a volte, una conversazione vera.
Ma non abbastanza da tornare a cercarla dove non c’è.

Questa assenza non mi pesa. Mi definisce.
È uno spazio che ho costruito io, con pazienza.
Non c’è rumore, non c’è attesa.
E, per la prima volta, non c’è sforzo.

Se l’amore tornerà, che arrivi come un’eco che non disturba.
Che non chieda permesso, ma che sappia dove sedersi.
Che non abbia fretta.

Nel frattempo, io resto qui.
Intera.




I luoghi che ci salvano

 Non sempre i luoghi che ci salvano sono quelli in cui ci sentiamo felici.

Spesso sono luoghi silenziosi, umili, in cui semplicemente ci siamo permessi di esistere senza dover spiegare nulla. Senza la necessità di sorridere, di parlare, di tenere tutto insieme.

A volte è una stanza. Una piccola cucina con la finestra aperta e il rumore del traffico in sottofondo.
A volte è un tratto di marciapiede, sempre lo stesso, percorso mille volte nei giorni in cui il cuore era troppo pesante per restare in casa.
Altre volte ancora è un luogo che non esiste più — una città lasciata, un volto sfocato nella memoria, un tempo che non ritorna — ma che continua a salvarci, ogni volta che ci pensiamo.

Ho avuto anch’io i miei rifugi.
Un piccolo ponte in una città, dove tornavo ogni sera per guardare l’acqua nera scorrere.
Un bosco nei dintorni di una casa, dove il silenzio sembrava capirmi meglio di qualsiasi voce.
Un libro, letto mille volte, come un amico discreto che non fa domande.
Una canzone che, ogni volta che la ascolto, mi ricorda che ho già attraversato il buio. E sono ancora qui.

I luoghi che ci salvano non fanno rumore.
Non chiedono nulla.
Non si offendono se li dimentichiamo per anni.



Eppure, restano. Ci aspettano.
E quando ne abbiamo bisogno, ci tornano in mente come un respiro più largo, come una carezza silenziosa nel caos.

Ognuno ha il proprio atlante della salvezza.
Non è fatto di confini geografici, ma di dettagli: una luce, un odore, un istante.
E custodirlo — anche solo ricordarlo — è un modo per non perdersi del tutto.







Il silenzio che ci resta

 Non so più come si parla del dolore, quando è così grande.

Non so più se bastano le parole, o se le parole servano ancora.
In questi giorni ho guardato immagini che non avrei voluto vedere. Ho letto notizie che mi hanno lasciato vuoto, con una stretta nello stomaco che non se ne va.
E mentre la vita intorno continua — come deve, come sempre — dentro di me si è aperta una domanda:
Che cosa resta della nostra umanità, quando smettiamo di sentire?

Ci sono momenti in cui la parola “tragedia” non basta più.
Non descrive, non consola, non scuote. Semplicemente si svuota, diventa suono, retorica, abitudine.
E allora cosa resta?

A Gaza, sotto le macerie, restano corpi.
Corpi di bambini, di madri, di anziani. Civili.
Non soldati. Non miliziani.
Persone.

Persone come noi, solo nate dalla parte sbagliata del muro.
Persone che volevano vivere, non sopravvivere.
Persone che avevano una casa, un nome, un futuro.
Ora non hanno più nulla.

Non si può spiegare la morte di un bambino. Non si può giustificare un missile su un ospedale. Non si può accettare l’idea che il dolore di alcuni valga meno di quello di altri.
Eppure succede. Ogni giorno.

E noi?

Siamo qui, altrove.
Forse impotenti, forse stanchi, forse semplicemente sopraffatti. Ma presenti. Connessi. Informati.
Sappiamo.
E sapere comporta una responsabilità.

Il silenzio è comprensibile. È umano.
Ma non può diventare indifferenza.
Non ora. Non davanti a questa sofferenza così vasta, così ripetuta, così sistematica.

Quello che accade a Gaza non è solo una questione politica, né una semplice pagina di cronaca.
È una ferita nella carne viva dell’umanità.
È la nostra incapacità di proteggere i più fragili, ancora una volta.
È l’eco di tante altre tragedie taciute, dimenticate, archiviate.

Eppure, qualcosa possiamo fare.
Possiamo restare umani.
Possiamo restare presenti.
Possiamo non smettere di guardare in faccia il dolore, anche se fa male.
Possiamo dire: “Non in mio nome.”
Possiamo donare, scrivere, condividere. Ma soprattutto, possiamo non voltare le spalle.

Non servirà a fermare le bombe.
Ma servirà a salvare anche qualcosa di noi.




Quando morirò, ...

 "Quando morirò, non potrò certo lamentarmi di aver vissuto solo una vita. Ne ho vissute almeno quattro."

Non è un’esagerazione, né un’illusione romantica. È solo la verità di chi ha abitato se stesso con fedeltà, ma ha cambiato pelle più volte, come fanno i serpenti antichi quando sentono che la pelle vecchia non contiene più il respiro.

Ogni vita che ho vissuto è rimasta, non è mai stata abbandonata. I luoghi di un tempo sono ancora lì, e io li ho tenuti stretti. Non li ho sigillati con malinconia, ma li ho trasformati in stanze aperte, visibili solo a chi sa vedere con il cuore. Ho costruito una piccola via nel mezzo del bosco della mia esistenza, una strada nascosta tra i rami e le radici, fatta di passi, errori, intuizioni e ritorni. Una strada che non va solo avanti, ma che conserva le orme del mio passaggio, come una mappa segreta che mi consente di tornare indietro senza perdere me stesso.

Ho lasciato tracce, ma non per vanità. Le ho lasciate come si lasciano briciole di pane nella fiaba, non per fuggire, ma per ritrovare la strada del cuore nei giorni in cui la nebbia copre ogni direzione. Ogni vita che ho vissuto ha avuto il suo ritmo, il suo sapore, i suoi fuochi e i suoi silenzi. C’è stata la vita del sogno, quella dell’urgenza, quella della perdita e poi quella della rinascita lenta, come l’erba che spunta dopo l’inverno.

Non ho mai chiuso le porte dietro di me. Le ho lasciate socchiuse. Perché ogni tanto, nel silenzio, mi capita di tornare a camminare in quei luoghi, nei momenti in cui il presente si fa sottile e sento il bisogno di ricordarmi chi sono stata , per capire meglio chi sto diventando.

                                                                                                                                                                                                                                              

E allora sì, quando morirò non sarà la fine di una vita, ma il compimento di un viaggio fatto di molte esistenze, tutte intrecciate come radici sotto la terra. Non sarà un addio, ma una trasformazione. Perché ciò che ho lasciato nei sentieri percorsi – la vita, l’amore, le parole, i gesti – continuerà a vibrare nel bosco della memoria.

E qualcuno, forse, troverà quelle tracce. E capirà che si può vivere più di una vita, restando fedeli a una sola anima.