Lo spot Vodafone 2025 ci regala quell’epico momento in cui il protagonista vede una stella cadente e, da profondo pensatore quale è, desidera solo avere sempre lo smartphone nuovo.
Una mente brillante: illuminazione zero, luminosità schermo 100%.
Davanti all’immensità dell’universo, questo eroe del consumismo riesce a partorire l’equivalente emotivo di un bug software: “Dammi un telefono nuovo, ti prego, non reggo l’idea di un modello uscito tre mesi fa.”
Un capolavoro di profondità emotiva: il vuoto cosmico che contempla il vuoto cosmico.
Mentre l’universo intero si muove sopra la sua testa, lui concentra tutta la sua intelligenza su un pensiero così rivoluzionario che perfino un caricabatterie da due euro avrebbe più dignità
La stella cadente probabilmente non esaudisce il desiderio: sta solo cercando di schiantarsi il più lontano possibile da lui, trascinando con sé l’ultimo brandello di dignità rimasto alla scena. È come se l’intero cielo avesse detto: “No guarda, io questa non la reggo.”
Nel silenzio cosmico, persino le nebulose si mettono le mani nei capelli. Le galassie sospirano. Un buco nero, da qualche parte, rigetta materiale stellare per lo shock.
E mentre l’universo intero tenta di elaborare il trauma, lui continua a fissare il cielo come se stesse aspettando che Siri gli risponda dai pianeti.
Se l’obiettivo era mostrare un uomo con le priorità confuse, missione compiuta: è il primo caso noto di persona con il cervello in modalità risparmio energetico permanente.
Una stella cade. E con lei, precipita anche la dignità.
Hai mai desiderato entrare davvero nella vita dei personaggi che hanno cambiato il mondo?
Hai mai voluto scoprire cosa si nasconde dietro le loro scelte, i loro trionfi, le loro cadute… e soprattutto la loro grandezza?
Su questo canale, ogni video è un viaggio.
Un tuffo nella storia di individui straordinari che, con il loro coraggio, il loro genio e la loro visione, hanno lasciato un’eco destinata a durare nel tempo.
Echoes of Greatness ti accompagna attraverso storie affascinanti, racconti avvincenti e ritratti emozionanti dei protagonisti che hanno segnato epoche e rivoluzionato il nostro presente.
Che si tratti di geni creativi, leader coraggiosi o pionieri visionari, qui scoprirai il lato umano dietro la leggenda.
Ogni video è pensato per ispirare, sorprendere e ricordarci che la grandezza nasce spesso da passi audaci e scelte difficili.
Iscriviti e lasciati trasportare da queste incredibili vite.
Le loro storie meritano di essere raccontate… e tu meriti di ascoltarle.
E, tra panettoni, luci sfavillanti e cene infinite, ho deciso di essere particolarmente cogliona.
Sì, hai letto bene.
Particolarmente cogliona.
Quella versione di te che sorride alle email inutili, che risponde ai messaggi in ritardo, che pensa: “Ok, forse questa volta va tutto bene”, mentre dentro sta urlando.
Le vacanze natalizie hanno questo potere magico: trasformarti in un mix di buonismo forzato, senso di colpa per non aver fatto tutto e propensione a fare scelte stupide solo perché “è Natale, si sa, siamo tutti più buoni”.
E io oggi sono lì.
A scrivere cose senza senso. A ridere di battute pessime. A comprare regali inutili.
A godermi il caos, perché tanto sappiamo tutti: la vita reale non è perfetta, ma almeno può essere divertente da coglioni.
Quindi sì, oggi sono in aria di vacanze e particolarmente cogliona.
Ma almeno, in questa versione natalizia, posso ridere di me stessa.
E forse, alla fine, è proprio questo il senso di tutto.
Ogni mattina scrollo il feed e vedo persone che sorridono in spiaggia, fanno colazione con avocado perfetti, corrono al parco con il cane che sembra uscito da una pubblicità.
E io?
Io sto lì con il caffè freddo, pantaloni stropicciati e il cane che mi ciuccia la pantofola.
La verità è questa: la felicità costante sui social è un mito.
Un mito costruito con filtri, luci perfette e storytelling calibrato al millimetro.
E noi ci sentiamo sbagliati perché il nostro caffè non è “Instagrammabile”, perché la nostra vita ha giornate no, perché il nostro sorriso non è sempre smagliante.
Eppure, scorrendo il feed, dovrei essere felice.
Dovrei sentirmi ispirata.
Dovrei essere meno imperfetta, più glow, meno umana.
Spoiler: non funziona così.
La felicità costante sui social è un mito.
Un reality show mascherato da vita vera.
E allora scrolliamo ancora, cerchiamo approvazione in like che durano meno di un secondo, ci confrontiamo con vite che non esistono. Fino a quando ricordiamo: nessuno vive davvero come appare online.
La vita non è un feed.
La felicità non è costante. Né il mio caffè è perfetto, né il tuo sorriso è sempre smagliante.
La vita reale è storta, rumorosa, disordinata, caotica, inprevedibile, fragile, complicata, faticosa.
L’unica perfezione possibile è accettare di essere umani.
E noi ci abbiamo creduto.
Abbiamo studiato, lavorato, sacrificato notti e sorrisi pensando che prima o poi il mondo ci avrebbe premiato.
Ma la realtà è diversa.
Il mondo non premia sempre chi merita.
Premia chi ha connessioni, chi nasce nel posto giusto, chi ha fortuna.
E chi non ce l’ha? Lotta contro ostacoli invisibili, barriere economiche, pregiudizi che nessun talento può cancellare.
E allora ci sentiamo frustrati. Stanchi. Inadeguati.
Come se il problema fossimo noi, quando in realtà il problema è la narrazione comoda che ci hanno fatto bere: la meritocrazia.
Ma c’è una cosa che possiamo fare: riconoscere la realtà.
Riconoscere i nostri limiti.
Riconoscere i nostri meriti.
Proteggere la nostra dignità.
E continuare a provarci, anche se il mondo non è giusto.
Il coraggio non sta nel vincere sempre.
Sta nel continuare, giorno dopo giorno, sapendo che a volte il successo dipende da fattori che non possiamo controllare.
E va bene così.
Viviamo in una cultura che ripete fino alla noia: “Se vuoi, puoi.”
È una frase motivazionale, certo. Ma è anche una semplificazione enorme.
La verità è che molte persone non hanno un problema di volontà: hanno un problema di spazio.
Spazio mentale, spazio emotivo, spazio economico, spazio di tempo.
C’è chi lavorerebbe ai propri sogni, se non fosse stanco morto dopo due turni di lavoro.
C’è chi cambierebbe vita, se non avesse paura di perdere l’unica stabilità che ha.
C’è chi inizierebbe nuovi progetti, se non avesse mille emergenze più urgenti da gestire.
C’è chi guarirebbe, se solo potesse permettersi di fermarsi.
Il punto non è giudicare.
Il punto è ricordare che ognuno avanza alla velocità che la sua vita gli permette.
E che la forza non è sempre nell’accelerare:
a volte è nel resistere, nel tenersi in piedi quando tutto tira in direzioni opposte.
Non c’è da colpevolizzarsi per ciò che non si riesce a fare.
C’è da riconoscere che, anche così, ogni giorno stai portando avanti una battaglia che pochi vedono.
E magari, un giorno, quando finalmente si aprirà un po’ di spazio, farai quei passi che oggi sembrano impossibili.
Non perché avrai più voglia.
Ma perché, finalmente, potrai.
Sembra una riflessione banale, quasi da lamentela da zio nostalgico… e invece no.
Perché pensateci: per decenni quel gesto – girare una rotellina, premere un tasto, controllare che la lancetta fosse al suo posto – è stato un rito. Un momento che chiudeva la giornata e apriva la promessa del domani.
Adesso?
Adesso la sveglia si carica da sola, si aggiorna da sola, suona da sola… e noi, paradossalmente, abbiamo sempre meno tempo di prima.
Perché che cos’è questo tempo che non abbiamo più?
Quello che sprechiamo scrollando i social “solo due minuti”?
Quello che usiamo per rispondere a un messaggio che poteva aspettare?
Quello che dedichiamo a una buonanotte mandata di fretta, senza neanche guardare davvero chi abbiamo accanto?
E allora fa quasi tenerezza pensare a quella vecchia sveglia da ricaricare.
Un’azione minuscola, lenta, inutile ai nostri occhi iper-digitali…
eppure profondamente umana.
Non era una perdita di tempo. Era un modo per dirci: “Ehi, la giornata è finita. Adesso respira.”
E magari, mentre ricaricavamo la sveglia… ricaricavamo anche noi.
E poi, lo ammetto: io quella vecchissima sveglia la ricarico ancora.
Sta lì, sul mio comodino, con la sua storia, il suo ticchettio imperfetto e la sua ostinazione a restare.
E nessun cellulare, per quanto smart, potrà mai rubarle il suo posto d’onore.
La notte scivola lenta, avvolgendo la stanza in un silenzio liquido, quasi fosse un mare senza tempo. Ci sediamo, soli, con carta e penna o davanti a uno schermo che brilla come una piccola finestra sull’infinito. Le parole cominciano a fluire, fragili e tremanti, come stelle che cercano il loro posto nel cielo.
Scriviamo pensieri che quasi nessuno leggerà, eppure ogni frase è una piccola mappa dell’anima. Raccontiamo ricordi che galleggiano tra luce e ombra, desideri che brillano e si dissolvono, paure che tremano come foglie sospese in aria. Ogni parola è un passo su un ponte invisibile, che ci conduce attraverso corridoi segreti della nostra mente, stanze dimenticate del cuore.
A volte le righe che tracciamo sembrano danzare, come se la penna fosse guidata da una mano diversa dalla nostra. È la nostra anima che parla, senza filtri, senza rumore. E in quel dialogo silenzioso sentiamo un tremito di verità: ciò che scriviamo non è per il mondo, è per noi stessi.
Il tempo sembra dilatarsi. I minuti si allungano come fiumi di luce, e per un istante ci sentiamo viaggiatori tra epoche diverse di noi stessi: il bambino che guardava il cielo, l’adulto che teme, il vecchio che ricorda. Tutti esistono nello stesso momento, legati da queste parole che solo noi possiamo leggere, solo noi possiamo sentire.
Quando il fuoco delle nostre emozioni si placa, chiudiamo il quaderno o spegniamo lo schermo. Il silenzio è diverso da prima: più denso, più pieno di ciò che siamo stati e di ciò che siamo diventati. E capiamo che scrivere non è mai stato un atto vano. È un viaggio segreto, un’esplorazione di territori invisibili, un incontro intimo con noi stessi.
In quelle sere, mentre il mondo dorme, impariamo a conoscerci davvero. E scopriamo che l’unico lettore che conta davvero, l’unico che può comprendere fino in fondo queste parole, è quello che ci abita dentro: la nostra anima, paziente e silenziosa, che ascolta tutto. È un atto di cura, un atto di coraggio.
Ci sediamo soli, scriviamo soli, eppure non siamo mai stati così vicini a noi stessi.
Immagina per un attimo che il tempo non scorra come pensiamo. Ogni istante che vivi non è solo il presente: è un ponte tra ciò che sei stato e ciò che diventerai. Ogni ricordo è un piccolo viaggio indietro, ogni scelta un passo avanti in un futuro ancora invisibile.
Il mondo intorno a te sembra solido, stabile, ma in realtà è un fluire continuo di percezioni, ricordi e possibilità. Guardi una cosa e non la vedi davvero: la tua mente la riempie di ciò che conosce, di ciò che teme, di ciò che desidera. Così, senza accorgertene, viaggi nel tempo ogni volta che osservi, scegli, ricordi o sogni.
Forse la cosa più straordinaria è che questi viaggi sono infiniti e silenziosi. Il passato e il futuro coesistono dentro di noi, e ogni istante che viviamo è un piccolo miracolo temporale: un incontro, un tramonto, un pensiero che appare dal nulla.
E allora, fermati un attimo. Respira. Senti la storia che sei stato, la promessa di chi diventerai, e il mistero del presente che ti attraversa come un fiume invisibile. In ogni battito, stai viaggiando tra tempi e mondi che nessuno può misurare, eppure esistono tutti dentro di te.
Ci sono relazioni che non finiscono con un addio, ma con un silenzio.
Non il silenzio di chi non ha più nulla da dire…ma quello di chi non riesce a vederti davvero.
È un tipo di dolore sottile, che si infila negli interstizi della quotidianità: una risposta breve quando volevi comprensione, uno sguardo distratto proprio quando avevi bisogno di essere ascoltato.
Non c’è cattiveria, non c’è disinteresse consapevole.
C’è solo un’incapacità emotiva che pesa come una porta chiusa.
Ricordo un momento preciso.
Un giorno in cui ero stanca, fragile, e avevo fatto un passo verso qualcuno che amavo.
Niente di enorme, solo un “oggi ho bisogno di te”.
Dall’altra parte, però, non arrivò nulla.
Non una mano, non una parola.
Solo un leggero imbarazzo, come se la mia vulnerabilità fosse un disturbo.
È lì che capisci la cosa più difficile: non tutte le persone che ti vogliono bene sanno dimostrarlo.
Non tutti sanno stare "dentro" la tua tristezza senza scappare.
E allora nascono domande: E se fosse colpa mia? E se dovessi imparare a farmi andare bene questo amore così incompleto?
La verità, però, è un’altra:i tuoi sentimenti non sono un problema da sistemare.
Non sei sbagliata perché senti intensamente.
Ci sono persone che amano a modo loro, ma il loro modo non sempre incontra il tuo.
E non serve rabbia, né colpa: solo consapevolezza.
L’amore non deve essere perfetto. Ma deve essere reciproco. Deve avere spazio per le tue debolezze, non solo per le tue forze. Deve accogliere, non minimizzare.
Prima o poi lo impari: non basta volersi bene. Bisogna sapersi incontrare.
E quando trovi qualcuno che ti vede anche nei giorni grigi, che non si spaventa di fronte alle tue paure, che ti ascolta persino quando non sai cosa dire…allora capisci quanto fosse pesante quel silenzio che chiamavi amore.
Ci sono persone che quando ti vedono fragile si avvicinano. E altre che quando ti vedono fragile, si difendono… da te. Non è sempre cattiveria. A volte è solo incapacità.
Ma una cosa la impari presto: la paura è una prova, e non tutti sanno attraversarla insieme.
Quando trovi una persona che non arretra davanti alle tue insicurezze, te ne accorgi subito.
Non perché abbia risposte perfette, né perché sia più forte di te.
Ma perché non ti fa sentire un problema da risolvere.
Te ne accorgi da piccoli gesti: da come ti guarda quando la tua voce trema, da come resta, anche se non sa che parole usare, da come non scambia la tua fragilità per un attacco, da come non ha bisogno di trasformare tutto in un conflitto.
È una presenza calma, una presenza che dice:“Non so cosa fare, ma sono qui.”
Ed è tutto ciò che serve.
Queste persone non ti chiedono di essere sempre forte. Non si offendono se hai paura. Non ti accusano se hai bisogno.
Non scappano se sei "rotto".
Capiscono che la vulnerabilità non è un difetto, ma un linguaggio. E loro lo parlano.
Poi ci sono quelli che, davanti alla tua paura, diventano nervosi, bruschi, polemici.
È come se la tua fragilità mettesse allo scoperto anche la loro…e allora reagiscono difendendosi.
Non da te, ma da ciò che fai emergere in loro.
Così, invece di ascoltarti, rispondono con: irritazione,battute pungenti, accuse, distacco, dichiarazioni come: “Stai esagerando”, “Sei sempre la solita”, “Con te non si può parlare”.
Non è malvagità. È paura.Paura che li tocchi troppo da vicino. Paura di sentirsi responsabili. Paura di non essere capaci. Paura di non sapere cosa fare.
Ma tu, a un certo punto, smetti di chiamarlo amore.
Perché l’amore non ti mette a tacere quando chiedi aiuto.
La differenza fra chi resta e chi si chiude non è la forza.
È la sicurezza emotiva.
Chi resta non è più “bravo”, semplicemente ha imparato che: le emozioni non sono minacce, il dolore non è contagioso, una richiesta non è un’accusa, la paura non è debolezza, ascoltare non significa fallire.
Ma anche tu impari qualcosa.
Impari che non tutti possono amarti nel modo in cui hai bisogno.
Impari che chi ti fa sentire sbagliato quando sei vulnerabile… non è attrezzato per te.
Impari che l’amore che funziona è quello che ti accompagna anche quando inciampi.
Impari che chi resta nei tuoi momenti più bui, lo fa perché ti vede, davvero.
E soprattutto impari questo:
La persona giusta non è quella che non ha paura. La persona giusta non è quella che è priva di fragilità. È quella che non si spaventa delle tue. Non pretende di “aggiustarti”. Non cerca frasi perfette.Non ha bisogno di sentirsi competente o salvatore. Non vive la tua paura come un’accusa.
Non pretende che tu sia sempre forte, brillante, stabile.Ti permette di avere dubbi, tremori, incertezze.
Ti lascia spazio per essere vera, senza paura di essere giudicata.
Quando mostri la parte fragile e disarmata di te, scatta in loro un senso di pericolo.
È come se vedessero la tua vulnerabilità come un peso che non vogliono portare.
Chi non ha paura, invece, vede quella vulnerabilità come un atto di fiducia.
È una forma altissima di intimità emotiva:
non condividere solo la gioia, ma anche il tremore.
Ci sono giorni in cui ti svegli con una nostalgia che non riesci a spiegare. Non ti manca una persona in particolare: ti manca un’idea.
L’idea di come avrebbero potuto essere le cose.
Di come avrebbero potuto essere loro.
Cresci pensando che l’amore, l’amicizia, la famiglia — tutto ciò che definisce la parola “noi” — abbiano una forma precisa. Una forma che non traballa, che non ti fa sentire sola anche quando non lo sei. Poi la vita arriva, con le sue pagine non richieste, e scopri che le persone non seguono il copione che ti eri scritto in testa.
Ricordo ancora la prima volta in cui ho capito davvero questa cosa.
Una frase semplice, quasi banale: “Io non posso darti quello che cerchi.”
Detta da chi, fino al giorno prima, sembrava averlo già promesso solo con gli occhi.
È curioso come il cuore si spezzi sempre in un attimo, ma ci metta anni a rimettersi insieme.
Lo stesso vale per certe amicizie: quelle che credevi eterne, che poi svaniscono come fotografie lasciate al sole. Non succede nulla di eclatante, nessun litigio, nessun tradimento. Solo un allontanamento lento, silenzioso, che fa più male proprio perché non ha un colpevole da accusare.
Un giorno ti svegli e non sai più quale sia stata l’ultima volta in cui quella persona ti ha chiesto davvero: “Come stai?”
Ci vuole coraggio a dire: “Non eri come ti avevo immaginato. E io non sono come pensavi.”
Un coraggio silenzioso, che non fa rumore ma cambia tutto.
Ed è lì che accade la parte più sorprendente della storia:
scopri che puoi amare qualcuno senza idealizzarlo, che puoi accettare di non essere ricambiato come vorresti, che puoi lasciare andare ciò che ti pesa senza smettere di essere una persona capace di affetto.
Capisci che la vita non ti deve persone perfette:
ti offre incontri che ti modellano, ti spezzano, ti insegnano.
E che tu, nel frattempo, puoi scegliere chi merita spazio nel tuo mondo interiore.
Forse l’essenza dei rapporti è tutta qui:
non nel pretendere che gli altri siano ciò che desideri,
ma nel riconoscere quando un legame ti nutre e quando ti svuota.
E nell’imparare, finalmente, a non confondere l’amore con l’illusione.
Con l’età, mi sto rendendo conto di una cosa che il mio io-Acquario ribelle, anticonformista e fiero della sua anarchia interiore non avrebbe mai voluto ammettere neppure sotto tortura astrologica: sto diventando… mia madre.
Lei, Vergine ascendente Scorpione: meticolosa al punto che Marie Kondo, al confronto, sembrava una dilettante; borghese nelle vene, con quel senso del “si fa così perché si è sempre fatto così” che per me, spirito libero, era un incubo adolescenziale. Io, invece, ero certa di essere nata per scardinare le regole, ribaltare i tavoli, mettere i piedi sul divano e il cuore in tangenziale.
E invece eccomi qui. A controllare due volte se il gas è chiuso. A piegare gli asciugamani “nel verso giusto” — e guai a me se qualcuno prova a contestarlo. A stilare liste, sotto-liste e post-it per ricordarmi i post-it. A lamentarmi in silenzio se qualcuno sposta una cosa dal posto dove “dovrebbe” stare… che poi è un posto che ho deciso io, senza alcun motivo razionale. Un tempo avrei definito tutto questo “decadimento strutturale dell’anima acquariana”. Oggi lo chiamo: martedì.
La parte ironicamente più tenera è che mi sorprendo sempre più spesso a usare sue espressioni. Quelle frasi che da giovane mi facevano sbuffare come un mantice, e che ora mi escono di bocca con la stessa naturalezza con cui soffiavo via i suoi consigli. Una sorta di possessione gentile, ma inevitabile. E ogni volta che succede, un po’ rido e un po’ mi commuovo.
Perché, diciamolo, mia madre era un universo intero: complicata, affilata, orgogliosa, elegante, profondamente affettuosa nel suo modo esatto, preciso, calibrato. Io, che mi vantavo di essere tutta intuizione, caos creativo e indipendenza cosmica, sto scoprendo che di lei mi è rimasto in tasca molto più di quanto sospettassi. Sono diventata una versione aggiornata — con più dubbi, più ironia, e forse più consapevolezza — di quella donna che, tutto sommato, è stata il mio primo punto fisso in un cielo pieno di stelle.
Forse crescere è proprio questo: vedere che quelle abitudini che combattevi come fossero mostri mitologici erano in realtà piccoli gesti di cura. Che quelle manie che giudicavi così severamente erano solo modi di tenere insieme il mondo. E che diventare simili a chi ci ha amato — anche se in un linguaggio diverso dal nostro — è una specie di eredità invisibile, la più potente.
Forse crescere è proprio questo: scoprire che le eredità più profonde non sono quelle che volevamo… ma quelle che, alla fine, ci fanno sentire più interi.
"Darei la vita per tornare a casa e ritrovarmi una volta a tavola con tutti quelli che ho amato. I presenti, gli assenti, i lontani. E non importa che avremmo poco o nulla da dirci e che resteremmo senza parole, sorpresi e stregati di ritrovarci per una volta insieme, vivi.
Non ci diremmo nulla perché vorremmo dirci troppo, saremmo presi dalla voglia di vederci, di toccarci, le sole presenze parlerebbero al nostro posto. Stupiti di esserci. A ciascuno direi senza dirlo: non ti chiedo nulla, mi basta sapere che ci sei, solo che ci sei.
Vi chiederei solo di riprendere il vostro posto di sempre a tavola, anche tu, mamma, siediti per favore, non stare sempre in piedi. E con noi i figli, i nipoti, le zie, e altri cari, come nei giorni di festa. Mi basterebbe guardarvi e vedere che tra voi vi guardate e di ciascuno sentite la grazia del ritorno.
A fianco, a mangiare lo stesso pane, la stessa pasta al forno, con le movenze di sempre, i passaggi di bottiglie e pietanze, il lento scrosciare di mescite, il mormorio di posate che toccano i piatti. (...)
Per ciascuno di voi darei la vita, figuriamoci per avervi tutti insieme, seppure solo per un pranzo, rubato al tempo, sfuggito al passato. Passerei quell’ora come un estratto d’eternità. E me ne andrei sazio, nella pienezza dell’istante.
Se il tempo è illusorio e sparge fantasmi e ogni tempo svanisce nel giro delle sequenze, lasciate che ognuno si fermi al fotogramma illusorio che più gli sta a cuore.
Non so che legami d’origine abbia l’etimo di famiglia con la fame, ma penso che la famiglia sia il luogo in cui si esaudisce la fame originaria che è alla base della nostra vita dal suo concepimento e poi ci accompagna lungo la strada.
Ritorno a casa, metafora di un più grande ritorno a una più grande casa”.
Ci sono persone che, quando entrano nella tua vita, non lo fanno in punta di piedi: arrivano come vento pieno, come fragore che non puoi ignorare.
Silvio — per noi SignoredeiSogni — è proprio così. Un uomo grande, sincero, passionale, che dell’amicizia ha fatto un valore sacro, quasi una forma di devozione.
Ha quel modo tutto suo di vivere le emozioni: a volte infantile, irruento, persino esagerato… ma sempre vero. Mai una parola detta per metà, mai un sentimento trattenuto per convenienza. Silvio è trasparente come pochi: il cuore lo porta all’esterno, e forse per questo si imbroncia quando viene contraddetto e si infuria quando si sente tradito.
Ma anche questo fa parte della sua autenticità, di quella purezza che non ha paura di mostrarsi, di quella delicatezza “scomposta” che lo rende umano nella forma più bella.
In lui convivono l’ironia che salva e la serietà che pesa, la dolcezza che sorprende e la forza che sostiene.
È l’amico che tutti vorremmo: quello che c’è quando serve, quello che sa abbracciare anche senza usare le braccia, quello che ti guarda davvero.
A te, Silvio, uomo grande e complicato, semplice e profondo allo stesso tempo: grazie per essere come sei.
Perché la tua amicizia non si vive, si custodisce. E si sente. Sempre.
Quest’anno ho deciso di vivere il Natale con realismo. Basta illusioni: voglio solo cose raggiungibili. Tipo trovare un parcheggio sotto le feste. O finire il panettone prima della scadenza(e cioè il prossimo anno a primavera).
Proposito n.1: Accettare serenamente che l’unico uomo costante nella mia vita rimane il fattorino che mi porta i pacchi. Lui sì che sa come trattarmi: suona, consegna e non chiede nulla.
Proposito n.2: Quando i parenti chiederanno “Allora, un nuovo amore?”, rispondere con un sorriso professionale e lo stesso tono con cui, da medico, dico “Vedremo gli esami”. Neutrale, ma con aspettativa zero.
Proposito n.3: Tenere a distanza i classici “magari quest’anno...!”: certo, come no. Magari arriva anche un unicorno che mi stira le camicie.
Proposito n.4: Ricordarmi che essere single ha i suoi vantaggi: nessuno che russa, nessuno che commenta il mio pigiama anti-sesso e nessuno che mi dice “ma sei sicura di avere bisogno di un altro caffè?”.
Sì, ne ho bisogno. E lo prendo.
Proposito n.5: Regalarmi un Natale senza drammi: solo lucine, dolci, e la consapevolezza che la storia più lunga e affidabile che ho è quella con il mio divano. Ed è una relazione sana, stabile e senza sorprese.
Proposito n.6: Fare pace col fatto che le uniche scintille che vedrò a Natale saranno quelle del caminetto…
Proposito n.7: Non farsi ingannare dalle canzoni natalizie che promettono baci sotto il vischio. L’unica cosa che ho baciato l’anno scorso è stata una coppa di spumante.
Proposito n.8: Evitare i cinepanettoni sentimentali dove la protagonista trova l’amore in tre giorni. Io in tre giorni trovo a malapena il tempo di finire la lavatrice.
Proposito n.9: Ricordarmi che la cosa più vicina alla magia del Natale è quando trovo qualcosa al 70% di sconto.
Proposito n.10: E soprattutto… imparare a godermi la mia compagnia. Perché alla fine, tra me e me, litigo e faccio pace giusto il tempo di scartare un cioccolatino.
E poi, tra una risata sarcastica e un brindisi anticipato, mi capita ancora di pensarci: al senso dell’amore.
A quella cosa misteriosa che si infila tra un ricordo e un respiro, e che nonostante tutto continua a bussare da qualche parte dentro di noi.
Non è nostalgia da film strappalacrime, né quella roba zuccherosa da bigliettino di San Valentino.
È più una consapevolezza tranquilla: l’amore, quello vero, non è necessariamente una persona seduta sul divano accanto a te. A volte è la memoria di un abbraccio che ti ha fatto bene, anche se appartiene al passato.
È la certezza che, malgrado i capitoli che si sono chiusi in modo brusco o assurdo, ci sono stati momenti sinceri, puliti, che hanno lasciato tracce buone.
E forse è questo che fa un po’ tenerezza: rendersi conto che nonostante tutto, dentro di noi non si spegne mai del tutto quella piccola luce che ci ricorda cosa si prova a essere scelti, visti, desiderati.
Non è rimpianto, non è rimorso. È solo la memoria di un calore che in qualche modo continua a far parte di noi.
E mentre ci diciamo che “non ci crediamo più”, la verità è che non abbiamo smesso del tutto. Semplicemente, abbiamo imparato a volerci più bene.
E a concederci il lusso di aspettare qualcosa che non sia perfetto e che non ci voglia sempre perfette.
Perché alla fine, l’amore non è una promessa da rispettare a Natale, né un colpo di scena studiato per farci commuovere sotto le lucine dell’albero.
È qualcosa di molto più semplice e più difficile allo stesso tempo: è riconoscere quando qualcuno ci fa stare bene senza chiederci di essere diverse da ciò che siamo.
E se non arriva, non significa che abbiamo fallito.
Significa solo che la nostra storia ha un ritmo diverso, e che nel frattempo possiamo continuare a coltivare tutto ciò che ci rende vive: relazioni , passioni sincere, e quella capacità – ostinata, quasi testarda – di ricominciare
E questo richiede tempo, pazienza, e soprattutto onestà brutale con noi stesse.
Richiede il coraggio di guardare le ferite, senza farci definire da esse.
Qualcuno, una volta, mi chiamò “incursore” proprio per questa capacità testarda di non arrendermi mai.
E forse aveva ragione: entro ed esco dalle difficoltà, dalle delusioni, dalle ripartenze, con una tenacia che a volte stupisce anche me.
Non per eroismo, ma per necessità. Perché andare avanti è l’unica direzione possibile.
Forse l’amore, quello autentico, non arriva come un regalo improvviso.
Forse si riconosce solo quando abbiamo fatto abbastanza pace con noi stesse da sentirlo senza paura.
E' quella forza silenziosa che ci spinge sempre un passo più avanti.
Non è una favola.
È la vita.
E a volte, essere “incursori” è già una grande forma d’amore.
Ah, eccola qui, la cartolina delle “magnifiche origini” che certa gente vorrebbe tanto ritrovare: una litografia del 1559 in cui il malcapitato paziente, probabilmente già pentito di essere nato, viene placcato da tre energumeni mentre il “medico” — che più che un dottore sembra un fabbro distratto — gli armeggia nella zona inguinale con una tenaglia degna di un’officina medievale.
Ma certo, torniamo alla natura!
Torniamo ai bei tempi in cui l’anestesia era un’idea lontana, l'asepsi una fantasia, e il massimo della tecnologia sanitaria era “speriamo non muoia”.
Immaginate la scena: “Tranquillo, è solo un’ernia. Stai fermo. Anzi, fermatelo voi… e passatemi quella pinza da carpentiere, grazie.”
E ogni volta che qualcuno sospira “ah, quando si stava meglio senza modernità”, basta mostrargli questo capolavoro.
Un promemoria vivace — e vagamente traumatico — di cosa significhi vivere “secondo natura”: dolore, improvvisazione artigianale e un altissimo rischio di passare dal medico al prete in due minuti netti.
La tecnologia non è un menù à la carte: non puoi prendere lo smartphone e lasciare l’anestesia, tenerti Netflix ma rifiutare i vaccini
Non puoi evocare la ‘vita semplice’ mentre pubblichi lo status su un telefono che ha più potenza di calcolo di tutti gli astronomi del Rinascimento messi insieme.
Fare i nostalgici solo quando fa comodo è facile: nessuno però rinuncia al Wi-Fi per farsi operare con una tenaglia del 1559.
Quindi sì, evviva il ritorno al passato…
…ma magari solo in litografia, grazie.
Intervento su un'ernia inguinale nel XVI secolo. Per tenere fermo il paziente erano necessarie tre persone (due per la parte superiore del corpo e una per tenere aperte le gambe del paziente).
Dal volume di Kaspar Stromayr intitolato "Practica Copiosa", del 1559.
Visto che ormai pare tutti abbiano detto la loro, tocca anche a me dire la mia sulla raccapricciante vicenda della famiglia nel bosco.
Partiamo dalle premesse: si tratta di una famiglia di extracomunitari clandestini, una coppia con bambini, senza permesso di soggiorno, che occupavano un rudere inagibile e relativo terreno circostante comprati per quattro spicci, in mezzo ai boschi dell'Abruzzo, assieme a qualche animale da cortile, senza che fino ad un anno fa nessuno o quasi sapesse della loro esistenza.
Rudere senza acqua corrente, riscaldamento, servizi igienici, stanze separate, elettricità (tranne per un ridicolo singolo pannello fotovoltaico).
Nulla di nuovo, si direbbe: quelle stesse condizioni di degrado le abbiamo viste altre volte tra gli immigrati clandestini, dove la miseria economica va spesso di pari passo con quella culturale e talvolta ahimé anche morale.
La novità peró questa volta é che la coppia é anglo-australiana, e quel degrado sarebbe una scelta di vita "sana", lontana dalla civiltà ed a contatto con la natura, fedele al mito del "buon selvaggio" di Rousseau, se solo i due imbeciIIi sapessero chi fosse.
Cosí succede che i due sempIiciotti (lui sedicente chef incapace di riconoscere i funghi commestibili, lei sedicente sensitiva incapace di predire l'arrivo delle forze dell'ordine), forse convinti che la natura sia benevola e tutti i suoi generosi frutti siano salutari, avvelenano i figli con i funghi, e devono cosí ricorrere all'ospedale, figlio di quella civiltà corrotta e corruttrice che tanto disprezzano, e relative cure mediche, ovviamente gratuite, ovvero pagate da quei cittadini corrotti dal sistema schiavista al punto da dover persino lavorare e pagare le tasse, anziché passare la giornata a rincorrere farfalle nel bosco.
Ma del resto, l'alternativa sarebbero state tre piccole fosse sul retro del rudere, visto che tre bare bianche e relativo funerale, sarebbero costate soldi che non avevano, e che non avrebbero fatto in tempo a racimolare col solito crowdfounding acchiappagonzi in cui si sono già dimostrati esperti.
Quando i tre pargoletti arrivano in ospedale, ed i sanitari si danno da fare interferendo inopinatamente con quelle leggi di Darwin cui i due ammmmorevoli genitori sono devoti, si rendono conto subito che c'è qualcosa che non va, non fosse altro che i due imbeciIIi si oppongono al sondino nasogastrico necessario per salvarli, perché i bambini "non debono mai entrare in contatto con la plastica bruta e kativa".
I sanitari si rendono anche conto che i bambini hanno comportamenti strani, al punto da sospettare un ritardo nello sviluppo psicofisico rispetto alla loro età.
E probabilmente capiscono anche che non hanno mai visto un pediatra, un dentista o un oculista, né hanno mai fatto alcuna profilassi vaccinale.
Del resto, se vivi come vivevano i contadini delle aree piú degradate due secoli fa, devi anche accettare il fatto che c'era un motivo se la loro aspettativa media di vita era di 35 anni, e metà dei figli non arrivavano all'età adulta...
O forse pensavi che vivere in un rudere senza acqua corrente e riscaldamento tra muffe, pulci e marcescenze, cagando in un buco nel bosco, pulendoti il culo con le mani nude, senza uno spazzolino da denti perché vuoi evitare la plastica, e pisciando tutti assieme in un pitale vicino alla stufetta ed al pagliericco dove dormi, fosse una vita salubre, specialmente per i tuoi figli?
Perché magari quando c'è l'ammmmore c'è tutto, ed al resto provvederà madre natura, a partire da pulci, pidocchi, zecche, cimici, parassitosi e carie?
Al che i sanitari decidono giustamente di segnalare la famiglia di mentecatti ai servizi sociali (si badi bene che questo accadeva oltre un anno fa), i quali con la massima discrezione e delicatezza (nonostante le opposte ricostruzioni di quel cogIione di Salvini e delle anaIfacapre delle destre populiste, che non perde mai occasione di ricordarci quanto il suffragio universale sia un'idiozia) iniziano ad avvicinare la famigliola nel bosco, per vederne le effettive condizioni di vita.
E scoprono, oltre a quanto sopra, che i bambini non hanno nessun contatto con coetanei, sono completamente alienati da socializzazione, educazione, sport... nemmeno lo studio è garantito, perché i due cerebroIesi di genitori non gli fanno homeschooling (ovvero un programma didattico in famiglia che segue comunque quello ministeriale, con relativi esami periodici, che è completamente legale), ma scelgono l'unschooling (nessun programma, studino il cazzo che vogliono, quando vogliono, e se gli garba... quello che devono davvero imparare, lo imparano dagli alberi e dagli animali da cortile che tengono nel rudere).
Scoprono anche che hanno già cambiato QUATTRO Stati per non sottostare a quegli stessi obblighi che anche l'Italia vorrebbe rispettassero, se non altro in quanto ce lo impone la CONVENZIONE SUI DIRITTI DELL'INFANZIA E DELL'ADOLESCENZA, approvata, dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989, e ratificata dall’Italia con la legge 176/1991.
Ma un anno di trattative non risolvono nulla, i due imbeciIIi rimangono fermi sulle loro posizioni.
Come massima concessione accettano un'insegnante molisana che forse prova a trasformare l'unschooling in homeschooling, senza successo.
Addirittura il Comune gli offre di aiutarli a rendere il rudere agibile e magari ottenerne almeno l'abitabilità (servizi igienici con fossa biologica, acqua corrente, tramezze divisorie, corrente eletteica, serramenti ecc.), ma i due sciroccati rifiutano.
Alla fine, dopo un anno, intervengono le forze dell'ordine, che NO, NON SOTTRAGGONO i bambini ai genitori, ma impongono semplicemente a tutta la famiglia il trasferimento in una struttura abitabile.
Tuttavia mentre la madre ci si trasferisce con i figli (la cui frequentazione a quel punto segue le norme sulle situazioni a rischio, dato che pare evidente si abbia a che fare con degli squilibrati), il padre decide di rimanere nei boschi a badare alle bestie.
Si noti che l'intervento era inderogabile, posto che ai minori sono negati almeno tre diritti costituzionali fondamentali: salute, istruzione e socializzazione.
Questa la storia vera, sic et simpliciter.
Su cui tuttavia orde di imbeciIIi populisti, mammine pancine, animelle belle, ed i loro vergognosi politici di riferimento sempre pronti a vendere la madre (che comunque l'ha sempre fatto per professione) per quattro voti in piú, hanno iniziato a cavalcare la solita narrazione contro la magistratura (che dovrebbe occuparsi dei figli dei Rom), l'unione europea (che non c'entra nulla, ma ci sta bene con tutto), lo stato asfissiante che interferisce con i diritti dei genitori di aIIevare i figli come gli garba, big pharma che li vuole vaccinare e fare ammalare, gli assistenti sociali che distruggono famiglie e rapiscono bambini (vi ricordate di Bibbiano?), e tutta la solita serie di idiozie tipiche dei sempIiciotti cui ci si ostina, inspiegabilmente, a riconoscere il diritto di voto.
Per cui, se siete tra questi ultimi, e non vi è chiaro che quei due genitori sono dei pericolosi imbeciIIi i cui figli vanno tutelati, andatevene fuori dai coglioni, che questo non è il posto giusto per i mentecatti.
Quando ti trovi davanti a La bambina malata di Kristian Krohg, non hai il tempo di prepararti.
Non ti accarezza, non ti accompagna.
Ti colpisce.
Come uno schiaffo improvviso, di quelli che ti lasciano il volto caldo e l’anima senza fiato.
Perché questo quadro non chiede il permesso di entrare dentro di te: ci entra e basta.
E tu senti subito quella stretta allo stomaco, come se la stanza dipinta fosse la tua, come se quella luce smorzata ti riguardasse da vicino.
La madre, con il suo volto devastato, ti guarda senza guardarti: e tu riconosci esattamente quel tipo di paura, quella disperazione che non ha voce ma ha un peso.
E la bambina… così fragile ti si pianta nel petto con una forza che non ti aspetti da un corpo così piccolo.
Krohg non rappresenta soltanto una scena.
Ti scaraventa davanti a una verità che spesso evitiamo.
E tu, davanti a questo quadro, non puoi più fingere di non saperlo.
È uno schiaffo, sì.
Uno schiaffo che però ti sveglia, ti scuote, ti ricorda che la vita è così: crudele e tenerissima allo stesso tempo.
Che la fragilità è parte di noi.
Che la sofferenza degli altri non è mai distante davvero.
E quando ti allontani, lo senti ancora sulla pelle.
Quel colpo.
Quel dolore.
Quella verità che non puoi più ignorare.
La bambina, così piccola e pallida, sembra galleggiare tra due mondi, e tu ti ritrovi a sperare per lei, come se la tua speranza potesse bastare a trattenerla un po’ più a lungo.
In questo quadro, Krohg ti fa toccare con mano l’impotenza più profonda, quella che hai provato almeno una volta, o che temi di provare.
E proprio per questo, ti ricorda una verità che non si dimentica:
che il dolore più grande è il prezzo dell’amore più vero.
Krohg ti mette davanti a un istante sospeso tra la vita e l’addio.
Ti chiede di restare lì, anche se fa male.
Perché ogni pennellata è un soffio di dolore, un nodo in gola, un ricordo di tutte le volte in cui sei rimasto impotente davanti a ciò che stava sfuggendo dalle tue mani.
Questo quadro non ti lascia andare.
Ti attraversa, ti ferma, ti ricorda che la vulnerabilità fa parte della nostra storia.