Benvenuti

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sabato 9 agosto 2025

Non temiamo l’intelligenza artificiale. Temiamo l’uso disumano che ne può essere fatto.

 Sono favorevole all’IA. Lo dico senza esitazione.

Perché credo che possa migliorare la medicina, amplificare la conoscenza, rendere accessibile l’educazione, prevenire disastri, semplificare la vita. Credo che l’IA possa fare per il nostro tempo ciò che l’elettricità ha fatto per il secolo scorso: cambiare tutto.

Ma proprio per questo, non possiamo permetterci di essere ingenui.

L’intelligenza artificiale non è buona né cattiva. È potente. Ed è il potere, come sempre, che va interrogato.
Chi lo gestisce? Chi scrive i codici? Chi decide a cosa serve e a cosa no?
E, soprattutto: chi viene ascoltato quando si pongono queste domande?

Perché se lasciamo che l’IA venga usata solo da chi ha interessi economici o strategici, finiremo per delegare scelte cruciali a sistemi che non conosciamo, creati da mani che non possiamo eleggere o contestare.

Sostenere l’IA non significa dire “sì” a tutto. Significa dire sì a un’IA trasparente, inclusiva, tracciabile.
Un’IA che lavora per il bene collettivo, non per il controllo centralizzato.
Un’IA che potenzia l’umano, non che lo sostituisce nei suoi diritti fondamentali.

Chi ama davvero la tecnologia, non la idolatra. La governa. La umanizza.
E oggi, non servono solo ingegneri. Servono filosofi, eticisti, cittadini vigili. Serve un nuovo patto sociale in cui il progresso non sia una corsa cieca, ma una scelta consapevole.

“Il problema non è l’intelligenza delle macchine. È l’assenza di responsabilità negli umani che le guidano.”


Parlare di IA non è più parlare di “futuro”.
È già qui. Scrive, diagnostica, prevede, ottimizza, crea. In certi contesti lavora meglio di noi; in altri, ci affianca e ci spinge a pensare in modi nuovi.
E va bene così. Il progresso non è il nemico.

Il punto critico è un altro:
Stiamo crescendo noi come società, allo stesso ritmo con cui cresce la potenza degli strumenti che stiamo creando?

Perché non è l’IA a dover essere "umana".
Siamo noi a dover restare tali.

Serve un pensiero lungo, non solo tecnico ma etico e culturale, capace di porre limiti dove serve e di incoraggiare dove è giusto farlo.
Non possiamo permetterci di vedere l’intelligenza artificiale come una bacchetta magica. Ma nemmeno come uno spettro distopico.
È uno strumento di potere. E, come ogni potere, chiede visione, maturità, equilibrio.

Siamo disposti ad accettare che l’IA modifichi il lavoro, ma chi protegge chi viene lasciato indietro?
Siamo entusiasti delle IA generative, ma chi si assicura che non riproducano i pregiudizi di chi le ha addestrate?
Ci affascina la capacità di prevedere comportamenti, ma ci stiamo chiedendo quanto della nostra libertà siamo pronti a cedere in cambio di efficienza?

Non serve essere pessimisti per porre queste domande.
Serve solo avere a cuore la dignità umana.

In definitiva, l’IA può essere lo specchio più potente che l’umanità abbia mai costruito: riflette ciò che siamo, moltiplica ciò che facciamo, amplifica ciò che scegliamo.
Se guardiamo dentro quell’immagine con onestà, potremmo uscirne migliori. Ma solo se non smettiamo mai di chiederci: “a chi serve davvero questo progresso?”

L’IA è una rivoluzione. Ma perché sia anche un’evoluzione, dobbiamo crescere noi. Come persone. Come cittadini. Come umanità.



Quando la terra trema sotto i nostri piedi

 Ogni mattina ci svegliamo e facciamo fatica a comprendere che per milioni di persone, in paesi lontani, il suolo sotto i loro piedi non è stabilità, ma instabilità. Il mondo sta affrontando uno dei momenti più bui della sua storia recente: conflitti che infuriano, aiuti che diminuiscono e una crisi climatica che non fa sconti.

Prendiamo ad esempio il Sudan. Oggi, metà della sua popolazione , circa 25 milioni di persone , è minacciata da una carestia estrema. Intere comunità sono private del cibo, dell’assistenza sanitaria, e vivono sotto l’assedio della guerra. Non è solo guerra: è una fame deliberata, una strategia usata come arma contro i più vulnerabili .

Oppure guardiamo a Gaza, dove la fame avanza e le narrazioni cominciano finalmente a cambiare, anche in Israele. Le immagini hanno forzato una riflessione collettiva: una crisi che da negata, sta diventando inevitabile da affrontare.

 Ma c’è anche la Terra che soffre: Tuvalu, un piccolo stato insulare del Pacifico, sta compiendo la prima migrazione pianificata dell’intera popolazione a causa dell’innalzamento dei mari. Un gesto che dovrebbe scuoterci, perché è un campanello d’allarme per il pianeta intero.

Siamo davanti a tre storie diverse, ma unite dallo stesso filo sottile: la fragilità della nostra specie. La dignità della vita, la sacralità dell’abitare, la necessità dell’aiuto non sono optional: sono diritti universali. Quando lo Stato sociale trema e le risorse scarseggiano, emerge la domanda più urgente che possiamo porre a noi stessi: che mondo stiamo costruendo?

Tre esempi che tratteggiano un quadro doloroso, ma indispensabile da raccontare, perché il primo passo verso il cambiamento è vedere la realtà con cuore e con occhi aperti.

This country begins the world’s first planned migration of a ..




Mãe palestina Amira Muteir com bebê de 5 meses Ammar na Cidade de Gaza 5/8/2025 REUTERS/Mahmoud Issa Purchase Licensing Rights

https://www.newyorker.com/news/the-lede/israelis-are-starting-to-talk-about-famine-in-gaza?utm_source=chatgpt.com


“La spiaggia” di Lattuada : quando il mare rivela, più che nascondere

 la spiaggia (1954) di Alberto Lattuada è un film di rara eleganza morale, che affronta con sguardo lucido e compassionevole l’ipocrisia borghese del dopoguerra. 

Ci sono film che sembrano semplici, quasi leggeri… e poi ti restano dentro.
La spiaggia  di Alberto Lattuada è uno di quei film silenziosi ma taglienti, che ti costringono a guardare ciò che preferiamo ignorare.

In una località balneare ligure, tra ombrelloni, villeggianti e convenzioni sociali, arriva una donna. È bella, elegante, educata.
Ma porta con sé un passato che, appena svelato, basta a farla diventare "l’altra", "l’indegna", "la colpevole".
È una prostituta.

 Intorno a lei si muove una comunità “per bene”, che accoglie con sorrisi e allontana con disprezzo non appena la facciata cade.
La spiaggia diventa teatro di un processo morale sommerso, dove la condanna non arriva mai apertamente, ma goccia dopo goccia — negli sguardi, nei silenzi, nei giudizi che si fingono difesa della decenza.

La spiaggia è un film che denuncia senza urlare, che osserva senza giudicare, che mostra senza compiacersi.
Un'opera che parla di doppi standard, di ruoli imposti, di moralismo travestito da civiltà.
E lo fa con una grazia visiva e narrativa che oggi appare ancora più moderna di quanto fosse allora.

È uno specchio. Non del passato, ma del presente che non cambia. In La spiaggia, Alberto Lattuada compie un gesto radicale: prende la luce, i sorrisi e la superficie spensierata delle vacanze borghesi e vi spalanca dentro l’ombra più scomoda dell’Italia perbene.

Non c’è retorica, non c’è compiacimento. C’è invece un lento scivolare verso la consapevolezza che il vero scandalo non è la prostituta in villeggiatura, ma la società che la giudica mentre si nasconde.

La spiaggia, luogo pubblico per eccellenza, diventa il campo minato della morale.
Non serve un tribunale: bastano gli sguardi. Bastano i sussurri. Bastano le madri che "pensano ai propri figli", i padri che "non vogliono problemi", le amicizie che si sciolgono con la stessa rapidità di un gelato al sole.

La protagonista ,interpretata con straordinaria sobrietà da Martine Carol , non è una donna fatale. Non seduce. Non chiede nulla. Ma il solo fatto che sia lì, tra “le persone perbene”, è visto come una provocazione.
Il suo corpo non è libero: è colpevole.

Lattuada, con tocco chirurgico, mostra la reazione isterica della società non alla minaccia reale, ma a quella simbolica. La donna è una figura disturbante perché interrompe il gioco delle maschere.
In lei, gli altri vedono riflessi i propri compromessi, i propri segreti. E per questo la rifiutano.

Raf Vallone interpreta Silvio, il sindaco: uomo progressista, empatico, persino affettuoso. Ma anche lui  nonostante le buone intenzioni  è prigioniero del proprio ruolo.
Silvio è l’uomo che tenta di difendere, ma senza esporsi davvero. Che prova pietà, ma non fino al sacrificio. Che vorrebbe proteggere, ma si arrende alla logica del gruppo.
Il suo personaggio è tra i più moderni del cinema italiano dell’epoca: un uomo che non è né carnefice né eroe, ma solo umano. E quindi, inevitabilmente, parte del problema.

Siamo nel 1954, ma La spiaggia anticipa molti temi che diventeranno centrali solo decenni dopo.

 Lattuada osserva tutto con compassione e lucidità. Non trasforma la protagonista in una vittima sacrificale, né in una martire. La racconta semplicemente come essere umano. E proprio per questo il film è ancora così potente oggi.






Un film immortale, dimenticato troppo spesso: Uno sguardo dal ponte (1962)

 Uno sguardo dal ponte (A View from the Bridge), film tratto dall’omonima opera teatrale di Arthur Miller.

Diretto da Sidney Lumet nella versione americana a teatro, ma portato sullo schermo da Sidney Lumet (1955) e poi da Sidney Lumet e Peter Brook . Il film è del 1962 con Raf Vallone, diretto da Sidney Lumet nella versione teatrale a Broadway eD è Sidney Lumet stesso a firmare la regia cinematografica francese/italiana.

Raf Vallone ne fu protagonista sia a teatro che al cinema , un ruolo simbolico della sua carriera.

Vallone è Eddie Carbone, un uomo lacerato tra amore, onore e gelosia. Immigrato italiano a New York, vive un dramma interiore che esplode nella tragedia.
Un personaggio profondamente umano, che Raf interpreta con potenza trattenuta e cruda sincerità.

C’è un cinema che non urla, ma scava. Che parla di ossessioni, silenzi, desideri repressi e confini (morali, culturali, emotivi).
Uno sguardo dal ponte è uno di quei film.  Sullo sfondo: Brooklyn, l’immigrazione, la legge non scritta dell’onore, e la fragilità dell’identità maschile messa alla prova.

C’è una ferita che non si vede, ma che brucia. È quella che consuma Eddie Carbone. 

Lacerato tra affetto e desiderio, Eddie ama la giovane nipote Catherine in un modo che non riesce a nominare. Non può, non deve. Ma il sentimento cresce, si contorce, si traveste da protezione, da gelosia, da giustizia.
E lo divora.

Eddie non è un mostro: è un uomo comune, colto in fallo da qualcosa che non sa gestire.
Il suo sguardo sulla nipote è quello di un adulto incapace di accettare il passaggio del tempo, il distacco, l'autonomia di chi cresce e l'attrazione di chi resta a guardare.

Intorno a lui, l'onore, le leggi non scritte della comunità italoamericana, la fatica dell’emigrazione, la mascolinità ferita.
Ma dentro, un dolore privato, segreto, che esplode in tragedia.

La sua attrazione non è mai mostrata in modo esplicito. È suggerita, repressa, dissimulata  e proprio per questo ancora più drammatica.
Arthur Miller ci mette di fronte all’ambiguità, al rimosso, a ciò che la società preferisce non vedere. E Vallone regala a Eddie un volto umano, tremante ma potente e terribilmente reale.

Uno sguardo dal ponte non è solo un film. È uno specchio scomodo su ciò che non si può dire, ma che esiste.





giovedì 7 agosto 2025

Adoro anche la stronza che c'è in me, non sempre esce fuori, ma quando si mostra è uno spettacolo.

 


Tra le cose di mia nonna ho trovato spille, lettere e.......me

 

Amo le persone imperfette

 

Amo le persone imperfette. Non sopporto quelle che vogliono apparire perfette, perché le trovo artefatte ed insipide. Amo le persone imperfette, insicure e fragili. Con i loro difetti, i loro errori , le loro cicatrici nell’anima, perché hanno sofferto e conoscono le asperità della vita. E sanno ascoltare e comprendere gli altri. Talvolta sono difficili ma sono sempre vere e sincere, le persone imperfette. (Agostino Degas)




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Ho imparato a riconoscere chi c’è e chi non c’è,a fare da sola, a essere forte, ad avere una soluzione per ogni problema, o almeno fingere di averla. Ho imparato a contenere, a disarmare, a costruire e a smontare. Ho imparato ad avere certezze per poterle raccontare e a camminare sul filo a occhi chiusi, sorridendo. Ho conosciuto l’ansia e la paura , ho conosciuto la felicità e il terrore di perderla, ho conosciuto la vertigine dell’eternità che dà un senso agli anni che passano . Se sono cambiata? Cambiare è un verbo piccolo per me.






Olandesina: l’arte sublime del far niente… con talento.

 Una sirena della notte che non ha intenzione di spegnere le luci.

Nel grande circo del web, tra gente che cucina coi piedi e filosofi da Instagram, esiste una categoria superiore. Un’icona. Una figura che danza sulle regole del pudore e dell’algoritmo sessuale  con la grazia di chi sa esattamente dove sta il limite… ma lo stira la sera in diretta.Una via di mezzo tra Baby Spice e una cheerleader in sciopero della vergogna.

Lei è Olandesina.

Una visione bionda e ipnotica, a metà tra una fata del metaverso e una diva da sala prove della Garbatella improvvisata, che si esibisce in streaming con quella miscela esplosiva di seduzione velata e candore da “io? Ma sto solo ascoltando musica…”.
Niente di volgare, intendiamoci: solo una costante e chirurgica esposizione calibrata al millimetro. Come se fosse tutto casuale, ma ripetuto con invidiabile precisione.

Olandesina è un capolavoro contemporaneo: zero contenuti, mille visualizzazioni.
Nessuna dichiarazione, ma ogni movimento è una tesi sull’arte dell’ambiguità sessuale gestita in chiave softcore con filtri da Instagram story.
Con quella leggerezza irritante di chi non ha mai letto un libro, ma ha capito tutto della comunicazione visiva.

E poi c’è lui.
Fox.
Il “manager”.

Una figura mitologica, metà moderatore, metà PR, metà talpone da discoteca del 1994, che presidia la chat come un vecchio usciere convinto di essere il direttore artistico del secolo.
È lui che enuncia perle del tipo:
“Restate connessi, tra poco si scalda l’atmosfera ”,
“Niente pressioni ragazzi, Olandesina decide lei se e quanto...”.

Lei è La Regina, sì.
Fox 
 è il “manager” ufficiale, anche se in pratica è il portinaio digitale dello show. Modera la chat con l’energia di un PR alle prime armi, lancia promozioni tipo “stasera forse si balla con le calze a rete ”, e supervisiona tutto con la gravità di chi crede davvero di star dirigendo il Moulin Rouge, mentre gestisce una diretta da un salotto con luci LED.

Eppure, malgrado tutto, c'è qualcosa di quasi tenero nel suo show continuo. Un che di infantile travestito da maturo. Forse è l’unica vera forma d’arte rimasta: la provocazione svuotata di senso, ma piena di views.

Un teatro grottesco dove Olandesina è regista e protagonista,

Il suo pubblico? Un mix tragicomico di voyeurs in cerca di conforto e mariti smarriti nel mare del 5G.

Ma  questo è il vero colpo di scena: funziona.
Perché in mezzo a un web pieno di gente che si prende terribilmente sul serio, lei non dice nulla, non spiega nulla, non pretende nulla.
Semplicemente, si mostra.

Sarà anche esibizionista,  e chi lo nega?  ma lo è con stile, con finta timidezza, con quella teatralità da attrice che recita la parte della ragazza inconsapevole… con la fotogenia perfetta, la luce giusta e un pubblico pronto a bersi tutto.

  Malgrado tutto, le vogliamo bene.
Perché Olandesina, nel suo piccolo show in loop, è una certezza. Non cambia mai, non delude, non pretende nulla. CI RICORDA CHE L'UNIVERSO PUO' ANCHE NON CAMBIARE.
È lì per ricordarci che il mondo è pieno di cose inutili… e che molte di queste, se fatte bene, sono deliziose.

Quindi grazie, Olandesina. Continua a danzare per noi. A muoverti come se nulla fosse, a giocare al gioco dell’ingenuità armata, a intrattenerci con il tuo mistero biondo . Solo che lo show è un po’ fuori tempo massimo.C’è piuttosto quel territorio scomodo in cui la sensualità diventa un esercizio di ostinazione, una lotta disperata contro il tempo, il buonsenso.

E tu, spettatore, puoi indignarti, ridere, schifarti… o semplicemente restare lì, catturato come una falena davanti al neon.

Continua a danzare sul filo dell’equivoco, a sembrare inconsapevole mentre domini lo schermo, a farci sorridere e scuotere la testa allo stesso tempo.

E tu, Fox… continua pure a “gestire la community”.
Qualcuno dovrà pur spegnere le luci quando finisce lo show.






mercoledì 30 luglio 2025

Francesca Albanese sotto attacco: onore italiano difeso da chi non è l’Italia

In breve: 

Francesca Albanese, giurista italiana e relatrice speciale dell’ONU per i diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati dal 2022, ha denunciato apertamente quello che definisce un “genocidio” e un sistema di apartheid condotti da Israele a Gaza, criticando anche aziende americane che traggono profitto dall’occupazione.

Il 9 luglio 2025 il segretario di Stato Usa Marco Rubio ha annunciato sanzioni personali nei suoi confronti: congelamento di beni e divieto di ingresso negli Stati Uniti, accusandola di un’attività “vergognosa” contro Usa e Israele e di aver incoraggiato la Corte penale internazionale (CPI) a procedere contro funzionari statunitensi o israeliani.

L’ONU e la Commissione europea hanno chiamato all’immediata revoca delle sanzioni, denunciando la violazione dell’immunità dei relatori speciali e il pericolo di delegittimazione del sistema internazionale dei diritti umani.

In Italia, l’assenza di una qualsiasi reazione da parte del governo Meloni è stata definita “vergognosa” da molte voci, tra cui l’ANPI e le opposizioni parlamentari: nessuna parola di solidarietà verso una concittadina che rappresenta il nostro Paese alle Nazioni Unite.



Francesca Albanese: coraggio, coerenza, responsabilità. E l’Italia resti a guardare?

In un momento in cui la verità viene sempre più spesso soffocata da interessi geopolitici ed economici, Francesca Albanese rappresenta un faro di integrità e impegno. La sua voce – forte, documentata, implacabile – denuncia ciò che molti preferirebbero ignorare.

Difendere la verità come dovere civico

Di fronte a prove solide che documentano crimini contro l’umanità, sofferenze indicibili e la complicità – stretta o indiretta – di grandi aziende nell’occupazione israeliana, Albanese non ha esitato: ha chiamato le cose col loro nome, anche quando era inevitabile distinguere tra verità e opportunismo politico. La sua analisi del sistema economico dell’occupazione, trasformato in un “economia del genocidio”, è una denuncia alle nostre coscienze e un atto di responsabilità civile estrema.


Gli Stati Uniti chiedono il silenziamento: vergogna senza precedenti

Alla luce delle sue denunce, il governo statunitense ha imposto sanzioni personali a un’esperta delle Nazioni Unite. Congelamento dei suoi beni, divieto di ingresso negli Stati Uniti, accuse di antisemitismo o sostegno al terrorismo: tutto per aver fatto ciò che il suo ruolo richiede. Un messaggio chiaro: non importa la verità, importa la fedeltà politica. Le sanzioni sono state definite da lei stessa “tecniche di intimidazione mafiosa”.


L’Italia? Silenzio imbarazzante e complicità politica

In questo scenario torbido, il silenzio del governo italiano – nello specifico della premier Meloni e del ministro Tajani – risulta non solo assordante, ma profondamente inaccettabile. Nessuna dichiarazione di solidarietà, nessuna presa di posizione in difesa di una cittadina impegnata nel rappresentare il nostro Paese presso le Nazioni Unite. Un silenzio che alimenta sottomissione, mentre valori e diritti vengono messi a tacere.


Un modello da elogiare, una lezione da non dimenticare

Francesca Albanese incarna l’onore del nostro Paese nel consesso internazionale: scienza giuridica, rigore morale, passione civile. Resiste alle pressioni, ai tentativi di delegittimarla, a una macchina diplomatica che preferirebbe riscrivere la narrativa a proprio favore. La sua riconferma all’incarico ONU fino al 2028 è anche una vittoria di civiltà: la prova che chi parla di diritti può ancora farlo con dignità nel sistema internazionale.


Invitiamo tutti a spezzare il silenzio. A condividere, commentare, chiedere che l’Italia si schieri a fianco di chi difende veramente i diritti umani. Il tempo della complicità tace ora deve finire.





mercoledì 2 luglio 2025

IL GIORNO IN CUI NON HO AVUTO FRETTA

 

Non era un giorno importante.
Niente da festeggiare, niente di nuovo.
Era uno di quei giorni anonimi, spogli, dove la vita sembra andare avanti per inerzia.
Martedì, o forse giovedì.
Il tipo di giorno che, di solito, si dimentica in fretta.

Mi sono svegliata presto, con il corpo stanco e la mente ancora  affaticata.
Fuori, un cielo bianco e opaco che non prometteva né pioggia né sole.
Dentro casa, silenzio. Nessuna urgenza che bussasse alla porta. Solo quella sensazione vaga, sospesa, di essere nel mezzo di qualcosa che non so spiegare.

E per una volta, non ho avuto fretta.
Non ho controllato il telefono.
Non ho pensato a cosa “dovevo” fare.
Ho messo su la moka, lentamente, come se ogni gesto avesse un peso nuovo.

Mi sono seduta in cucina, con la tazza calda tra le mani.
E lì, in quell’angolo semplice della mia casa, è successo qualcosa.
Non un’illuminazione.
Niente di mistico o spettacolare.
Solo… un silenzio pieno. Un tempo diverso.

Il vapore saliva piano, disegnando linee nell’aria.
Il profumo del caffè si mescolava con la luce del mattino che entrava morbida dalla finestra.
Il cucchiaino nella tazza faceva un suono rotondo, ritmico.
E io ero lì. Davvero lì.
Non proiettata altrove, non persa nei pensieri.
Presente. Intera.

In quel momento, non mancava niente.
C’era solo ciò che c’era — e andava bene così.
La tazza calda, il respiro lento, la schiena appoggiata alla sedia, il cuore tranquillo.
Non perché tutto l'universo fosse risolto, ma perché finalmente non stavo pensando ad altro.

Era un istante piccolissimo, ma completo.
Uno di quelli che passano inosservati, se non stai attenta.
E invece io lo vedevo. Lo sentivo.
Come si sente qualcosa che ha peso, anche se è leggero.

Non è durato a lungo.
Pochi minuti, forse.
Poi è ripreso tutto: le notifiche, la lista delle cose da fare, la giornata che ricomincia a spingere.

Ma io ero diversa.
Perché avevo toccato quel punto fermo.
Quel posto silenzioso dove la felicità non ha bisogno di dirsi, ma si riconosce.
Non era gioia.
Era lucidità. Presenza.
Un attimo qualunque che, per qualche ragione, conteneva tutto.

Da allora, non lo inseguo.
Non lo pretendo.
Ma so vederlo, quando torna.
E ogni volta, senza clamore, mi ricorda che a volte basta poco per sentirsi esattamente dove si deve essere.





La legge dice.........

 La legge dice : metti la rete perchè il cane non deve distrarre il guidatore e non deve catapultarsi verso i sedili anteriori.



E' UN' ORA CHE RIDO😂😂😂

lunedì 30 giugno 2025

Io non sono cambiata. Sono nata così. E forse anche tu.

 Non ho avuto un “risveglio”, una crisi, una svolta.

Non c’è stato un momento preciso in cui ho capito che il mondo era più magico di quanto sembrasse.
Perché io lo sapevo già.

Sono nata sognatrice.
Con gli occhi grandi, pieni di cielo, e il cuore che batteva già per gli altri prima ancora di sapere parlare.
Amavo gli animali come fossero fratelli.
Mi commuoveva la gentilezza.
Vedevo storie ovunque: tra le pieghe di una giornata grigia, nel silenzio di una carezza, in uno sguardo che nessuno notava.

E sapete una cosa? Non ho mai smesso.

Mi hanno detto:
"Vedrai, crescendo cambierai.”
“Imparerai a proteggerti.”
“Diventerai più concreta.”

Non è successo.
Non perché io sia speciale, ma perché non ho mai voluto smettere di sentire.
Anche se era scomodo. Anche se faceva male.
Anche se vivere con il cuore aperto significa, a volte, soffrire più degli altri.

Ma significa anche vedere di più.
E quello che vedo, ogni giorno, è un mondo ancora pieno di miracoli piccoli e silenziosi.

 Un cane abbandonato che continua ad amare.
Un bambino che ride da solo con un piccione.
Una persona che ti tiene la porta anche se è in ritardo.
Una signora che nutre i gatti del quartiere come se fossero suoi.

Questi sono gli attimi che mi salvano.
Queste sono le storie che voglio raccontare.
Perché sono reali. Perché succedono ogni giorno.
E perché troppo spesso passano inosservate.

Ma non è solo una questione di “vedere”.
È una scelta.

Scegliere di non voltarsi dall’altra parte.
Scegliere di aprire il cuore, anche quando fa male.
Scegliere di credere che l’amore per il prossimo e per gli animali non sia solo un sentimento, ma un modo di essere.

E questa scelta, per quanto piccola, ha un potere immenso.

Perché quando ti fermi a guardare davvero, a sentire davvero, il mondo cambia.
Non magicamente, non senza fatica. Ma cambia, pezzo dopo pezzo, dentro e fuori di te.

La meraviglia non è una favola per bambini.
È un atto di coraggio.
Una ribellione silenziosa contro un mondo che preferisce distrarti, anestetizzarti, farti sentire piccolo.

Quel coraggio esiste.
Dentro ogni istante in cui si sceglie di vedere con gli occhi del cuore.

Se ti senti stanco della routine, se senti che manca qualcosa, non cercare altrove.
Guarda intorno, guarda dentro.
Riscopri la magia che c’è, spesso nascosta, sotto la superficie.

Non devi cambiare per tornare a vivere.
Devi solo ricordarti chi sei stato, prima che ti convincessero a smettere di sognare.

Io sono nata così. E tu?

Il mondo è più magico di quanto crediamo.
E quel mondo comincia dentro di noi.




domenica 15 giugno 2025

La geniallità

 Quando Voltaire fu in punto di morte, venne chiamato un prete, che lo esortò a maledire il demonio. “Le sembra questo il momento adatto per farsi altri nemici?” -rispose.


Ah, che lezione! In quell’istante finale, dove il corpo cede e le illusioni svaniscono, Voltaire non cerca salvezza, ma coerenza. Non si inginocchia — rilancia. Mentre il mondo si affanna a separare santi e dannati, lui si sottrae con eleganza al teatrino celeste. Nemmeno all’ultimo secondo si lascia arruolare in una guerra metafisica che non ha mai riconosciuto come sua.

Ironia? Certamente. Ma anche strategia esistenziale.
Perché se c’è una morale, è questa:
Quando sei prossimo al nulla, non ha senso farsi nuovi problemi. Né amici da compiacere, né nemici da maledire. Il diavolo? Figurarsi. Potrebbe pure essere il vicino di bara, meglio non litigarci subito.

E in fondo, Voltaire ci insegna che l’umorismo — quello vero, quello che ti accompagna anche al limite del precipizio — è la più alta forma di libertà.
La morte, come Dio e il Diavolo, può anche bussare alla porta. Ma se rispondi con una battuta, forse, per un istante, sei tu che comandi la scena.





martedì 27 maggio 2025

La stanza che ho scelto

 



A te, che hai scelto il silenzio anziché lo sforzo di farti capire.
Che hai preferito la calma alla vertigine, la solitudine alla confusione, la chiarezza alla speranza mal riposta.

Non è stata una chiusura.
È stata una direzione.

Hai imparato che l’amore — quello che valga la pena — non può essere un continuo tradursi, spiegarsi, correggersi.
E che il cuore non è una cosa da concedere ogni volta che qualcuno lo chiede con gentilezza apparente.

Così, hai smesso.
Non per cinismo, ma per rispetto.
Hai deciso che in questo tempo della vita, non amare è un modo per non dimenticarti di te.

C’è forza, in chi sa stare sola.
In chi non si scusa per il proprio silenzio, e non teme le sere senza voce al telefono.


Non chiudi, ma non insegui.
Nel frattempo, coltivi la tua pace.

Fai ordine nei pensieri.
Ti ascolti senza giudicarti.
E in tutto questo c’è  bellezza .
Tua. Intatta. Indiscutibile.

 non ti chiami fuori dalla vita, ma solo da ciò che non le assomiglia:
che il tuo spazio resti sacro.
E il tuo silenzio, una forma di musica.

Non ho più voglia di dovermi tradurre in un linguaggio che non mi somiglia.
Di diventare leggibile per chi non sa leggere, di farmi piccola per entrare nel riquadro di qualcun altro.

Non c’è rancore in questa distanza.
Solo quiete.
Una specie di spazio pulito, dove finalmente respiro.


Ho imparato che non tutto quello che scalda è casa, che non tutto quello che vibra è vero.
Che a volte, stare bene con sé stessi non è un attimo tra due relazioni, ma un luogo dove si resta — perché ci si sta bene.

Non mi mancano i messaggi, le attenzioni, le mani intrecciate per strada.
Mi manca, a volte, una conversazione vera.
Ma non abbastanza da tornare a cercarla dove non c’è.

Questa assenza non mi pesa. Mi definisce.
È uno spazio che ho costruito io, con pazienza.
Non c’è rumore, non c’è attesa.
E, per la prima volta, non c’è sforzo.

Se l’amore tornerà, che arrivi come un’eco che non disturba.
Che non chieda permesso, ma che sappia dove sedersi.
Che non abbia fretta.

Nel frattempo, io resto qui.
Intera.




I luoghi che ci salvano

 Non sempre i luoghi che ci salvano sono quelli in cui ci sentiamo felici.

Spesso sono luoghi silenziosi, umili, in cui semplicemente ci siamo permessi di esistere senza dover spiegare nulla. Senza la necessità di sorridere, di parlare, di tenere tutto insieme.

A volte è una stanza. Una piccola cucina con la finestra aperta e il rumore del traffico in sottofondo.
A volte è un tratto di marciapiede, sempre lo stesso, percorso mille volte nei giorni in cui il cuore era troppo pesante per restare in casa.
Altre volte ancora è un luogo che non esiste più — una città lasciata, un volto sfocato nella memoria, un tempo che non ritorna — ma che continua a salvarci, ogni volta che ci pensiamo.

Ho avuto anch’io i miei rifugi.
Un piccolo ponte in una città, dove tornavo ogni sera per guardare l’acqua nera scorrere.
Un bosco nei dintorni di una casa, dove il silenzio sembrava capirmi meglio di qualsiasi voce.
Un libro, letto mille volte, come un amico discreto che non fa domande.
Una canzone che, ogni volta che la ascolto, mi ricorda che ho già attraversato il buio. E sono ancora qui.

I luoghi che ci salvano non fanno rumore.
Non chiedono nulla.
Non si offendono se li dimentichiamo per anni.



Eppure, restano. Ci aspettano.
E quando ne abbiamo bisogno, ci tornano in mente come un respiro più largo, come una carezza silenziosa nel caos.

Ognuno ha il proprio atlante della salvezza.
Non è fatto di confini geografici, ma di dettagli: una luce, un odore, un istante.
E custodirlo — anche solo ricordarlo — è un modo per non perdersi del tutto.







Il silenzio che ci resta

 Non so più come si parla del dolore, quando è così grande.

Non so più se bastano le parole, o se le parole servano ancora.
In questi giorni ho guardato immagini che non avrei voluto vedere. Ho letto notizie che mi hanno lasciato vuoto, con una stretta nello stomaco che non se ne va.
E mentre la vita intorno continua — come deve, come sempre — dentro di me si è aperta una domanda:
Che cosa resta della nostra umanità, quando smettiamo di sentire?

Ci sono momenti in cui la parola “tragedia” non basta più.
Non descrive, non consola, non scuote. Semplicemente si svuota, diventa suono, retorica, abitudine.
E allora cosa resta?

A Gaza, sotto le macerie, restano corpi.
Corpi di bambini, di madri, di anziani. Civili.
Non soldati. Non miliziani.
Persone.

Persone come noi, solo nate dalla parte sbagliata del muro.
Persone che volevano vivere, non sopravvivere.
Persone che avevano una casa, un nome, un futuro.
Ora non hanno più nulla.

Non si può spiegare la morte di un bambino. Non si può giustificare un missile su un ospedale. Non si può accettare l’idea che il dolore di alcuni valga meno di quello di altri.
Eppure succede. Ogni giorno.

E noi?

Siamo qui, altrove.
Forse impotenti, forse stanchi, forse semplicemente sopraffatti. Ma presenti. Connessi. Informati.
Sappiamo.
E sapere comporta una responsabilità.

Il silenzio è comprensibile. È umano.
Ma non può diventare indifferenza.
Non ora. Non davanti a questa sofferenza così vasta, così ripetuta, così sistematica.

Quello che accade a Gaza non è solo una questione politica, né una semplice pagina di cronaca.
È una ferita nella carne viva dell’umanità.
È la nostra incapacità di proteggere i più fragili, ancora una volta.
È l’eco di tante altre tragedie taciute, dimenticate, archiviate.

Eppure, qualcosa possiamo fare.
Possiamo restare umani.
Possiamo restare presenti.
Possiamo non smettere di guardare in faccia il dolore, anche se fa male.
Possiamo dire: “Non in mio nome.”
Possiamo donare, scrivere, condividere. Ma soprattutto, possiamo non voltare le spalle.

Non servirà a fermare le bombe.
Ma servirà a salvare anche qualcosa di noi.




Quando morirò, ...

 "Quando morirò, non potrò certo lamentarmi di aver vissuto solo una vita. Ne ho vissute almeno quattro."

Non è un’esagerazione, né un’illusione romantica. È solo la verità di chi ha abitato se stesso con fedeltà, ma ha cambiato pelle più volte, come fanno i serpenti antichi quando sentono che la pelle vecchia non contiene più il respiro.

Ogni vita che ho vissuto è rimasta, non è mai stata abbandonata. I luoghi di un tempo sono ancora lì, e io li ho tenuti stretti. Non li ho sigillati con malinconia, ma li ho trasformati in stanze aperte, visibili solo a chi sa vedere con il cuore. Ho costruito una piccola via nel mezzo del bosco della mia esistenza, una strada nascosta tra i rami e le radici, fatta di passi, errori, intuizioni e ritorni. Una strada che non va solo avanti, ma che conserva le orme del mio passaggio, come una mappa segreta che mi consente di tornare indietro senza perdere me stesso.

Ho lasciato tracce, ma non per vanità. Le ho lasciate come si lasciano briciole di pane nella fiaba, non per fuggire, ma per ritrovare la strada del cuore nei giorni in cui la nebbia copre ogni direzione. Ogni vita che ho vissuto ha avuto il suo ritmo, il suo sapore, i suoi fuochi e i suoi silenzi. C’è stata la vita del sogno, quella dell’urgenza, quella della perdita e poi quella della rinascita lenta, come l’erba che spunta dopo l’inverno.

Non ho mai chiuso le porte dietro di me. Le ho lasciate socchiuse. Perché ogni tanto, nel silenzio, mi capita di tornare a camminare in quei luoghi, nei momenti in cui il presente si fa sottile e sento il bisogno di ricordarmi chi sono stata , per capire meglio chi sto diventando.

                                                                                                                                                                                                                                              

E allora sì, quando morirò non sarà la fine di una vita, ma il compimento di un viaggio fatto di molte esistenze, tutte intrecciate come radici sotto la terra. Non sarà un addio, ma una trasformazione. Perché ciò che ho lasciato nei sentieri percorsi – la vita, l’amore, le parole, i gesti – continuerà a vibrare nel bosco della memoria.

E qualcuno, forse, troverà quelle tracce. E capirà che si può vivere più di una vita, restando fedeli a una sola anima.





giovedì 24 aprile 2025

Una luce che non chiede il permesso

 

Non perché sia perfetta. Non perché io abbia tutte le risposte.
Anzi, la mia fede è spesso un inciampo, una domanda aperta, una lotta silenziosa. Ma è mia. E c’è.

E forse, proprio per questo, a volte la sento osservata con una strana miscela di curiosità, sospetto… e, sì, un filo di invidia.
Perché chi crede, davvero, anche quando vacilla, ha qualcosa che non si compra, non si simula, non si spiega: ha radici.

In un mondo dove tutto è liquido, chi ha fede sembra solido.
Non rigido, ma saldo.
Non arrogante, ma abitato da una Presenza.
E questo, a chi vive costantemente in superficie, può sembrare irritante.

La fede non è superiorità. Non è ricetta per la felicità.
Ma è una luce che, anche nel buio, sai dove cercare.
E sì, può far male a chi quella luce non riesce (o non vuole) più vederla.

Ma non è competizione.
La fede vera non divide, non si impone, non è trofeo.
È un dono. E come ogni dono, è libero.
Può essere accolto, può essere rifiutato… ma non può essere invidiato senza prima essere desiderato.

 Quindi se la mia fede suscita qualcosa in te, che sia domanda, rabbia o persino invidia — accoglila. È già un inizio. È già dialogo. È già sete.



Buon viaggio, Padre Francesco.

 Ti congedi, forse solo per un tratto, ma il tuo passo resta inciso nel solco del tempo.

Hai parlato con il Vangelo nelle mani e le scarpe impolverate,
hai stretto mani tremanti, guardato negli occhi i dimenticati,
e ci hai ricordato che la fede non è rifugio, ma incontro.

Ci lasci parole che non pesano come pietre,
ma come semi: attecchiranno nei cuori che hanno saputo ascoltare.

Hai portato sulla spalla le fragilità della Chiesa come un pastore porta la pecora ferita: senza clamore, con amore.
Non hai voluto essere icona, ma fratello. E proprio così sei diventato guida.

Ora vai, se è tempo di andare.
Che il vento dello Spirito ti accompagni,
che la Luce ti preceda,
e che la pace ti abiti,
come tu hai cercato di abitare il dolore del mondo con misericordia.

Con amore, nel silenzio e nella preghiera.
Buon viaggio, Papa Francesco.




da chi ha imparato qualcosa anche solo ascoltandoti in silenzio.

25 APRILE – CI SIAMO DAVVERO LIBERATI?

 Oggi si festeggia la Liberazione. Grigliate, bandiere, post commemorativi con la foto in bianco e nero del nonno partigiano che magari voterebbe gente molto diversa oggi. Tutto bello. Emozionante. Patriottico.

Ma a un certo punto, tra una salamella e un "Bella Ciao" cantata stonata, qualcuno dovrebbe chiedersi:

Ci siamo davvero liberati?

Perché a guardarci bene, sembriamo più un popolo liberato dal pensiero critico che dal fascismo. Siamo passati dal "credere, obbedire, combattere" al "comprare, scrollare, lamentarsi".

Il fascismo? Non è sparito. Ha solo cambiato outfit: adesso indossa giacca e cravatta, parla di "merito", "tradizione", "decoro urbano", e ogni tanto si commuove davanti a una targa in piazza, prima di firmare una legge contro chi protesta davvero.

E noi? Noi applaudiamo. O peggio: ci indigniamo 5 minuti su Twitter e poi torniamo a discutere di MasterChef. Siamo così liberi che ogni giorno ci facciamo raccontare la realtà da un algoritmo, ci indigniamo su comando, e votiamo chi ci dice che l’antifascismo è roba da vecchi.

 Il 25 aprile è diventato una specie di Natale laico: pieno di buoni sentimenti, zero senso critico, e con l’immancabile zio che dice "però anche i partigiani hanno fatto cose brutte".  È una Liberazione da teatro. Ma fuori scena, l’applauso è per chi mette in discussione la Resistenza, non per chi la porta avanti.

La verità? Forse non ci siamo mai liberati del tutto. Abbiamo solo chiuso il fascismo in cantina… e gli abbiamo lasciato la chiave sotto lo zerbino.

E noi? Noi postiamo la foto del partigiano con l’hashtag giusto, poi ci sediamo comodi a guardare Netflix, convinti che la libertà sia scontata, garantita, permanente.

Abbiamo sostituito la libertà con il consumo. La resistenza con la rassegnazione. L'impegno politico con l'indifferenza digitale. Siamo liberi, sì — ma di scegliere tra due offerte su Amazon.

Il 25 aprile dovrebbe essere una giornata di riflessione attiva, non una cartolina ingiallita. E la domanda vera non è se siamo liberi oggi, ma se abbiamo ancora voglia di lottare per esserlo domani. Perché la libertà non è un dono: è un processo. E la liberazione, se non diventa cultura condivisa e vigilanza costante, si trasforma in mito stanco, facilmente strumentalizzabile.

Quindi sì, celebriamo. Ma con gli occhi aperti.

VVB Francesca