Ragazzi sono in vacanza.
Sì, adesso. Con Natale alle porte e quella frenesia collettiva che trasforma persone normalmente equilibrate in organizzatori di pranzi che durano più di un matrimonio.
C’è chi ha già stilato menù chilometrici, chi parla di “tradizione” con lo sguardo di chi non dorme da tre notti e chi ripete “tanto è semplice” mentre prepara dodici piatti, tre contorni e un dolce che richiede meditazione zen.
Io osservo. In silenzio. E prendo appunti mentali su cosa evitare nella vita.
I pranzi di Natale sono quell’esperimento sociale in cui si mangia troppo, si parla sopra gli altri e si finge entusiasmo per piatti “come li faceva la nonna” anche se la nonna, onestamente, aveva standard diversi.
Tutti bravissimi, tutti chef, tutti pronti a offendersi se lasci qualcosa nel piatto.
Io, con grande eleganza, mi dileguo dalla cucina.
Non per snobismo, ma per sopravvivenza. Perché tra il rumore dei mestoli, le opinioni non richieste e le guerre fredde sul tempo di cottura, serve un attimo di decompressione.
Natale arriva comunque, con il suo carico di tavolate infinite, sorrisi stiracchiati e “mangia che sei magro” detto a persone che non lo sono dal 2006.
Io mi preparo così: vacanza preventiva, entrando poco, uscendo spesso e senza lasciare tracce.
Non contro il Natale.
Non ho mai capito perché tutto questo debba sembrare obbligatorio. Sedersi, sorridere, commentare ogni piatto come se fosse un evento storico. Come se non mangiare tutto fosse scortesia, alzarsi fosse scortesia e respirare in silenzio fosse scortesia.
Alla fine mi limito a sparire al momento giusto, che è molto più divertente.
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