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lunedì 22 dicembre 2025

Tra un gesto e un’idea

 Oggi ho deciso di prendere la strada stretta che percorriamo sempre dopo il bar, quella con le foglie gialle che si accumulano vicino ai lampioni e il rumore dei passi che rimbomba tra i muri bassi delle case, e per un attimo ho pensato a come tu ti muovi sempre nello stesso punto quando arrivi qui. Ho preso il caffè al solito bar, quello con le tazze rotte ma che conosciamo a memoria, e ho guardato fuori senza nemmeno accorgermene. Mi sono sorpresa a pensare che tu probabilmente stai facendo la stessa cosa in qualche angolo della città, senza sapere che io ci sto pensando.Ho camminato piano, quasi come se volessi allungare quel momento, e mi sono sorpresa a immaginarti lì, fermo davanti alla stessa finestra al terzo piano, il gesto che fai sempre quando guardi fuori, come se cercassi qualcosa che solo tu sai.  

Per un attimo ho sorriso da sola, pensando a come ogni piccolo dettaglio di te – quel modo strano di muovere le mani, , la tua risata che a volte parte senza motivo – riesca a rendere tutto il resto più vivido. Non c’era bisogno di parlarsi, non ancora, eppure sentivo la tua presenza come se fossi lì, accanto a me, nella stessa aria, nello stesso silenzio condiviso senza parole.

Ho continuato a camminare, e ogni passo sembrava legato a quell’immagine: il tuo sguardo che si ferma su qualcosa di insignificante e lo trasforma in un piccolo rituale che solo io ho notato, solo io so leggere. Mi sono resa conto che certe connessioni non hanno fretta, non hanno bisogno di conferme immediate: esistono già nelle abitudini, nei gesti ripetuti, nelle piccole cose che agli altri sembrano invisibili.

E mentre il vento mi portava l’odore del caffè dal bar all’angolo, ho sentito quella strana leggerezza, un’energia silenziosa che non pesa, che non delude. È la certezza che certe persone, anche se solo immaginate in un momento come questo, hanno già il potere di cambiarti la percezione del mondo, di rendere il quotidiano più vivo, più tuo, più vero.




Specchi rotti: messaggio per Fox

 C’è una categoria di persone che ti acolta...... 

E poi parla. Parla tanto. Sempre di te.

Non per capire, ma per ridurre.
Perché riconoscerti significherebbe ammettere una mancanza interna che fa troppo rumore.

La cosa interessante è che chi sminuisce raramente lo fa per ciò che sei davvero, ma per ciò che rappresenti: uno specchio.
E gli specchi non offendono, mostrano.
Il problema è che non tutti sono pronti a guardarsi senza filtri.

Così nasce il bisogno di ridicolizzare, di distorcere, di raccontare una versione di te che sia più digeribile del confronto con sé stessi.
Non è cattiveria: è autodifesa psicologica.
È il tentativo maldestro di ristabilire una gerarchia che esiste solo nella loro testa.

Chi parla male di te non sta costruendo una verità: sta gestendo una frattura.
Una frattura tra ciò che vorrebbe essere e ciò che vede quando ti "incontra".
E allora ti riduce, ti etichetta, ti banalizza.
Per sentirsi, per un istante, meno piccolo.

La parte più ironica?
Nel tentativo di sminuirti, rendono evidente esattamente ciò che cercano di nascondere: insicurezza, confronto costante, bisogno di validazione.

Tu non devi difenderti.
Non devi spiegarti.
Chi ti comprende non ha bisogno di voci di sottofondo.
E chi ti scredita lo fa perché la tua semplice esistenza mette in crisi la sua narrativa personale.

Continua a essere ciò che sei.
Lascia che parlino.
Alcune persone non hanno altro modo per sentirsi presenti se non nominando chi le supera.

Silenziosamente, li hai già superati.






Appunti dal dopo

 C’è un momento, prima di addormentarsi, in cui la casa smette di fare rumore. Non perché sia silenziosa, ma perché smettiamo di ascoltarla. È lì che tornano le cose che abbiamo lasciato indietro. Non bussano. Si siedono accanto al letto come se avessero sempre avuto il diritto di farlo.

Io, in quel momento, penso alle versioni di me che non sono mai diventata. Le vedo chiaramente: quella che ha avuto il coraggio di restare, quella che ha saputo andarsene prima, quella che ha detto “ti amo” senza paura di sembrare ridicola, quella che ha taciuto per non ferire. Sono tutte vive, da qualche parte. Io no. Io sono quella che è sopravvissuta scegliendo male abbastanza volte da diventare reale.

Ci insegnano che il tempo cura, ma nessuno ci dice che il tempo, a volte, allunga solo l’ombra

 Alcune ferite non vogliono guarire: vogliono essere ricordate. Come una stanza chiusa a chiave in una casa in cui continuiamo ad abitare. Passiamo davanti alla porta ogni giorno fingendo che non esista, ma sappiamo esattamente cosa c’è dentro. Il profumo di qualcosa che non torna. Una frase detta a metà. Una promessa fatta senza capire il peso delle parole.

Il vero spaccacuore non è perdere qualcuno. È accorgersi di chi si è diventati dopo. È guardarsi allo specchio e riconoscere il volto, ma non più lo sguardo. È scoprire che sai stare da sola, sì, ma non come avevi immaginato: non forte, non libera, solo… abituata.

Ho amato persone che non erano pronte e ho fatto finta di non vederlo. Ho lasciato andare chi forse lo era, per paura di dover essere all’altezza. Ho confuso l’intensità con l’amore, la mancanza con il desiderio, il dolore con la profondità. E ogni volta mi dicevo: “Questa volta è diversa”. Non lo era. E forse nemmeno io.

C’è una stanchezza che non viene dal fare troppo, ma dal sentire troppo.

Una stanchezza che ti rende gentile solo in superficie . Continui a funzionare: lavori, rispondi ai messaggi, ridi nei momenti giusti. Ma dentro c’è una stanza spoglia, e al centro una sedia vuota. Su quella sedia si siedono i “se solo”. Se solo fossi stata meno me stessa o, forse, di più.

Scrivo questo non per trovare risposte, ma per fare spazio. Perché il dolore ignorato marcisce, mentre quello raccontato respira. E se anche solo una persona, leggendo, sentirà quel piccolo clic nello stomaco — quello che dice “non sono solo” — allora ne sarà valsa la pena.

Non prometto guarigione. Prometto sincerità. Prometto che si può andare avanti anche portando dentro nomi che non pronunciamo più. Prometto che la fragilità non è una colpa.

E se stasera, nel silenzio prima del sonno, qualcosa verrà a sedersi accanto a te, non scacciarlo subito. Ascoltalo. Forse non è lì per farti male. Forse è lì per ricordarti che, nonostante tutto, hai amato. E questo, anche quando fa male, è l’unica cosa che nessuna perdita può portarti via.




Quando il Natale si ferma e ti ascolta

 Per me il Natale non è una pausa felice: è una soglia.

Un punto dell’anno in cui le difese si abbassano e ciò che abbiamo tenuto sotto controllo torna a farsi sentire.
Non per ferirci, ma per ricordarci che siamo vivi anche lì dove fa male.

In questi giorni emerge la distanza tra chi siamo diventati e chi abbiamo dovuto essere per resistere.
Le parti adattate, quelle compiacenti, quelle che hanno imparato a stringere i denti invece di chiedere.
Il Natale, psicologicamente, è questo: il momento in cui il sistema smette di correre e l’anima chiede ascolto.

Non tutto ciò che riaffiora è luminoso.
Ci sono stanchezze profonde, solitudini non dette, rabbie educate al silenzio.
Ma ignorarle non le guarisce.
Riconoscerle sì.
Perché ciò che viene visto smette di agire nell’ombra.

Il nuovo anno non è una pagina bianca: è una pagina già scritta a matita.
Porta con sé schemi, paure, desideri antichi.
La vera possibilità non è cambiare tutto, ma interrompere ciò che ci fa male in automatico.
Un gesto consapevole alla volta.
Una scelta meno punitiva verso noi stessi.

Auguro un Natale che non anestetizzi, ma integri.
Che permetta di sentire senza il bisogno immediato di aggiustare.
E un anno nuovo che non chieda di essere forti, produttivi o migliori,
ma più allineati.
Più interi.
Più fedeli a ciò che, dentro, non vuole più essere ignorato.

Buon Natale.
Buon un anno nuovo in cui il rapporto più importante — quello con voi stessi — smetta di essere una lotta e diventi finalmente uno spazio sicuro.