Quando tutti i tuoi affetti non esistono più, non “fai” quasi nulla.
Per un po' si sopravvive. Si impara a stare in piedi in una stanza diventata enorme, dove ogni eco ricorda qualcuno che non c’è.
All’inizio non pensi: il pensiero è troppo pesante.
C’è solo una stanchezza lenta, una specie di nebbia.
Ti chiedi dove sono finiti i nomi che pronunciavi senza sforzo, le voci che ti tenevano al mondo.
E a volte ti arrabbi con la vita, altre volte con il silenzio, più spesso con te stessa.
E la pioggia?
Non ti ripari davvero.
Lasci che cada.
Ci sono giorni in cui ti bagna fino alle ossa, e capisci che nessun riparo è sufficiente.
Altri in cui trovi un angolo: un gesto ripetuto, una strada conosciuta, una tazza calda tra le mani, una frase letta per caso.
Non salvano, ma tengono insieme.
Col tempo impari questo:
non devi sostituire chi non c’è più,
non devi riempire il vuoto,
non devi diventare forte.
Devi solo restare permeabile.
Lasciare che qualcosa — anche minimo — continui a passarti attraverso.
Un albero visto ogni mattina.
Un animale che non chiede spiegazioni.
Il fatto ostinato che il cuore, contro ogni logica, continua a battere.
Non è una vittoria.
È una forma di fedeltà.
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