Benvenuti

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lunedì 30 giugno 2025

Io non sono cambiata. Sono nata così. E forse anche tu.

 Non ho avuto un “risveglio”, una crisi, una svolta.

Non c’è stato un momento preciso in cui ho capito che il mondo era più magico di quanto sembrasse.
Perché io lo sapevo già.

Sono nata sognatrice.
Con gli occhi grandi, pieni di cielo, e il cuore che batteva già per gli altri prima ancora di sapere parlare.
Amavo gli animali come fossero fratelli.
Mi commuoveva la gentilezza.
Vedevo storie ovunque: tra le pieghe di una giornata grigia, nel silenzio di una carezza, in uno sguardo che nessuno notava.

E sapete una cosa? Non ho mai smesso.

Mi hanno detto:
"Vedrai, crescendo cambierai.”
“Imparerai a proteggerti.”
“Diventerai più concreta.”

Non è successo.
Non perché io sia speciale, ma perché non ho mai voluto smettere di sentire.
Anche se era scomodo. Anche se faceva male.
Anche se vivere con il cuore aperto significa, a volte, soffrire più degli altri.

Ma significa anche vedere di più.
E quello che vedo, ogni giorno, è un mondo ancora pieno di miracoli piccoli e silenziosi.

 Un cane abbandonato che continua ad amare.
Un bambino che ride da solo con un piccione.
Una persona che ti tiene la porta anche se è in ritardo.
Una signora che nutre i gatti del quartiere come se fossero suoi.

Questi sono gli attimi che mi salvano.
Queste sono le storie che voglio raccontare.
Perché sono reali. Perché succedono ogni giorno.
E perché troppo spesso passano inosservate.

Ma non è solo una questione di “vedere”.
È una scelta.

Scegliere di non voltarsi dall’altra parte.
Scegliere di aprire il cuore, anche quando fa male.
Scegliere di credere che l’amore per il prossimo e per gli animali non sia solo un sentimento, ma un modo di essere.

E questa scelta, per quanto piccola, ha un potere immenso.

Perché quando ti fermi a guardare davvero, a sentire davvero, il mondo cambia.
Non magicamente, non senza fatica. Ma cambia, pezzo dopo pezzo, dentro e fuori di te.

La meraviglia non è una favola per bambini.
È un atto di coraggio.
Una ribellione silenziosa contro un mondo che preferisce distrarti, anestetizzarti, farti sentire piccolo.

Quel coraggio esiste.
Dentro ogni istante in cui si sceglie di vedere con gli occhi del cuore.

Se ti senti stanco della routine, se senti che manca qualcosa, non cercare altrove.
Guarda intorno, guarda dentro.
Riscopri la magia che c’è, spesso nascosta, sotto la superficie.

Non devi cambiare per tornare a vivere.
Devi solo ricordarti chi sei stato, prima che ti convincessero a smettere di sognare.

Io sono nata così. E tu?

Il mondo è più magico di quanto crediamo.
E quel mondo comincia dentro di noi.




domenica 15 giugno 2025

La geniallità

 Quando Voltaire fu in punto di morte, venne chiamato un prete, che lo esortò a maledire il demonio. “Le sembra questo il momento adatto per farsi altri nemici?” -rispose.


Ah, che lezione! In quell’istante finale, dove il corpo cede e le illusioni svaniscono, Voltaire non cerca salvezza, ma coerenza. Non si inginocchia — rilancia. Mentre il mondo si affanna a separare santi e dannati, lui si sottrae con eleganza al teatrino celeste. Nemmeno all’ultimo secondo si lascia arruolare in una guerra metafisica che non ha mai riconosciuto come sua.

Ironia? Certamente. Ma anche strategia esistenziale.
Perché se c’è una morale, è questa:
Quando sei prossimo al nulla, non ha senso farsi nuovi problemi. Né amici da compiacere, né nemici da maledire. Il diavolo? Figurarsi. Potrebbe pure essere il vicino di bara, meglio non litigarci subito.

E in fondo, Voltaire ci insegna che l’umorismo — quello vero, quello che ti accompagna anche al limite del precipizio — è la più alta forma di libertà.
La morte, come Dio e il Diavolo, può anche bussare alla porta. Ma se rispondi con una battuta, forse, per un istante, sei tu che comandi la scena.





martedì 27 maggio 2025

La stanza che ho scelto

 



A te, che hai scelto il silenzio anziché lo sforzo di farti capire.
Che hai preferito la calma alla vertigine, la solitudine alla confusione, la chiarezza alla speranza mal riposta.

Non è stata una chiusura.
È stata una direzione.

Hai imparato che l’amore — quello che valga la pena — non può essere un continuo tradursi, spiegarsi, correggersi.
E che il cuore non è una cosa da concedere ogni volta che qualcuno lo chiede con gentilezza apparente.

Così, hai smesso.
Non per cinismo, ma per rispetto.
Hai deciso che in questo tempo della vita, non amare è un modo per non dimenticarti di te.

C’è forza, in chi sa stare sola.
In chi non si scusa per il proprio silenzio, e non teme le sere senza voce al telefono.


Non chiudi, ma non insegui.
Nel frattempo, coltivi la tua pace.

Fai ordine nei pensieri.
Ti ascolti senza giudicarti.
E in tutto questo c’è  bellezza .
Tua. Intatta. Indiscutibile.

 non ti chiami fuori dalla vita, ma solo da ciò che non le assomiglia:
che il tuo spazio resti sacro.
E il tuo silenzio, una forma di musica.

Non ho più voglia di dovermi tradurre in un linguaggio che non mi somiglia.
Di diventare leggibile per chi non sa leggere, di farmi piccola per entrare nel riquadro di qualcun altro.

Non c’è rancore in questa distanza.
Solo quiete.
Una specie di spazio pulito, dove finalmente respiro.


Ho imparato che non tutto quello che scalda è casa, che non tutto quello che vibra è vero.
Che a volte, stare bene con sé stessi non è un attimo tra due relazioni, ma un luogo dove si resta — perché ci si sta bene.

Non mi mancano i messaggi, le attenzioni, le mani intrecciate per strada.
Mi manca, a volte, una conversazione vera.
Ma non abbastanza da tornare a cercarla dove non c’è.

Questa assenza non mi pesa. Mi definisce.
È uno spazio che ho costruito io, con pazienza.
Non c’è rumore, non c’è attesa.
E, per la prima volta, non c’è sforzo.

Se l’amore tornerà, che arrivi come un’eco che non disturba.
Che non chieda permesso, ma che sappia dove sedersi.
Che non abbia fretta.

Nel frattempo, io resto qui.
Intera.




I luoghi che ci salvano

 Non sempre i luoghi che ci salvano sono quelli in cui ci sentiamo felici.

Spesso sono luoghi silenziosi, umili, in cui semplicemente ci siamo permessi di esistere senza dover spiegare nulla. Senza la necessità di sorridere, di parlare, di tenere tutto insieme.

A volte è una stanza. Una piccola cucina con la finestra aperta e il rumore del traffico in sottofondo.
A volte è un tratto di marciapiede, sempre lo stesso, percorso mille volte nei giorni in cui il cuore era troppo pesante per restare in casa.
Altre volte ancora è un luogo che non esiste più — una città lasciata, un volto sfocato nella memoria, un tempo che non ritorna — ma che continua a salvarci, ogni volta che ci pensiamo.

Ho avuto anch’io i miei rifugi.
Un piccolo ponte in una città, dove tornavo ogni sera per guardare l’acqua nera scorrere.
Un bosco nei dintorni di una casa, dove il silenzio sembrava capirmi meglio di qualsiasi voce.
Un libro, letto mille volte, come un amico discreto che non fa domande.
Una canzone che, ogni volta che la ascolto, mi ricorda che ho già attraversato il buio. E sono ancora qui.

I luoghi che ci salvano non fanno rumore.
Non chiedono nulla.
Non si offendono se li dimentichiamo per anni.



Eppure, restano. Ci aspettano.
E quando ne abbiamo bisogno, ci tornano in mente come un respiro più largo, come una carezza silenziosa nel caos.

Ognuno ha il proprio atlante della salvezza.
Non è fatto di confini geografici, ma di dettagli: una luce, un odore, un istante.
E custodirlo — anche solo ricordarlo — è un modo per non perdersi del tutto.







Il silenzio che ci resta

 Non so più come si parla del dolore, quando è così grande.

Non so più se bastano le parole, o se le parole servano ancora.
In questi giorni ho guardato immagini che non avrei voluto vedere. Ho letto notizie che mi hanno lasciato vuoto, con una stretta nello stomaco che non se ne va.
E mentre la vita intorno continua — come deve, come sempre — dentro di me si è aperta una domanda:
Che cosa resta della nostra umanità, quando smettiamo di sentire?

Ci sono momenti in cui la parola “tragedia” non basta più.
Non descrive, non consola, non scuote. Semplicemente si svuota, diventa suono, retorica, abitudine.
E allora cosa resta?

A Gaza, sotto le macerie, restano corpi.
Corpi di bambini, di madri, di anziani. Civili.
Non soldati. Non miliziani.
Persone.

Persone come noi, solo nate dalla parte sbagliata del muro.
Persone che volevano vivere, non sopravvivere.
Persone che avevano una casa, un nome, un futuro.
Ora non hanno più nulla.

Non si può spiegare la morte di un bambino. Non si può giustificare un missile su un ospedale. Non si può accettare l’idea che il dolore di alcuni valga meno di quello di altri.
Eppure succede. Ogni giorno.

E noi?

Siamo qui, altrove.
Forse impotenti, forse stanchi, forse semplicemente sopraffatti. Ma presenti. Connessi. Informati.
Sappiamo.
E sapere comporta una responsabilità.

Il silenzio è comprensibile. È umano.
Ma non può diventare indifferenza.
Non ora. Non davanti a questa sofferenza così vasta, così ripetuta, così sistematica.

Quello che accade a Gaza non è solo una questione politica, né una semplice pagina di cronaca.
È una ferita nella carne viva dell’umanità.
È la nostra incapacità di proteggere i più fragili, ancora una volta.
È l’eco di tante altre tragedie taciute, dimenticate, archiviate.

Eppure, qualcosa possiamo fare.
Possiamo restare umani.
Possiamo restare presenti.
Possiamo non smettere di guardare in faccia il dolore, anche se fa male.
Possiamo dire: “Non in mio nome.”
Possiamo donare, scrivere, condividere. Ma soprattutto, possiamo non voltare le spalle.

Non servirà a fermare le bombe.
Ma servirà a salvare anche qualcosa di noi.




Quando morirò, ...

 "Quando morirò, non potrò certo lamentarmi di aver vissuto solo una vita. Ne ho vissute almeno quattro."

Non è un’esagerazione, né un’illusione romantica. È solo la verità di chi ha abitato se stesso con fedeltà, ma ha cambiato pelle più volte, come fanno i serpenti antichi quando sentono che la pelle vecchia non contiene più il respiro.

Ogni vita che ho vissuto è rimasta, non è mai stata abbandonata. I luoghi di un tempo sono ancora lì, e io li ho tenuti stretti. Non li ho sigillati con malinconia, ma li ho trasformati in stanze aperte, visibili solo a chi sa vedere con il cuore. Ho costruito una piccola via nel mezzo del bosco della mia esistenza, una strada nascosta tra i rami e le radici, fatta di passi, errori, intuizioni e ritorni. Una strada che non va solo avanti, ma che conserva le orme del mio passaggio, come una mappa segreta che mi consente di tornare indietro senza perdere me stesso.

Ho lasciato tracce, ma non per vanità. Le ho lasciate come si lasciano briciole di pane nella fiaba, non per fuggire, ma per ritrovare la strada del cuore nei giorni in cui la nebbia copre ogni direzione. Ogni vita che ho vissuto ha avuto il suo ritmo, il suo sapore, i suoi fuochi e i suoi silenzi. C’è stata la vita del sogno, quella dell’urgenza, quella della perdita e poi quella della rinascita lenta, come l’erba che spunta dopo l’inverno.

Non ho mai chiuso le porte dietro di me. Le ho lasciate socchiuse. Perché ogni tanto, nel silenzio, mi capita di tornare a camminare in quei luoghi, nei momenti in cui il presente si fa sottile e sento il bisogno di ricordarmi chi sono stata , per capire meglio chi sto diventando.

                                                                                                                                                                                                                                              

E allora sì, quando morirò non sarà la fine di una vita, ma il compimento di un viaggio fatto di molte esistenze, tutte intrecciate come radici sotto la terra. Non sarà un addio, ma una trasformazione. Perché ciò che ho lasciato nei sentieri percorsi – la vita, l’amore, le parole, i gesti – continuerà a vibrare nel bosco della memoria.

E qualcuno, forse, troverà quelle tracce. E capirà che si può vivere più di una vita, restando fedeli a una sola anima.





giovedì 24 aprile 2025

Una luce che non chiede il permesso

 

Non perché sia perfetta. Non perché io abbia tutte le risposte.
Anzi, la mia fede è spesso un inciampo, una domanda aperta, una lotta silenziosa. Ma è mia. E c’è.

E forse, proprio per questo, a volte la sento osservata con una strana miscela di curiosità, sospetto… e, sì, un filo di invidia.
Perché chi crede, davvero, anche quando vacilla, ha qualcosa che non si compra, non si simula, non si spiega: ha radici.

In un mondo dove tutto è liquido, chi ha fede sembra solido.
Non rigido, ma saldo.
Non arrogante, ma abitato da una Presenza.
E questo, a chi vive costantemente in superficie, può sembrare irritante.

La fede non è superiorità. Non è ricetta per la felicità.
Ma è una luce che, anche nel buio, sai dove cercare.
E sì, può far male a chi quella luce non riesce (o non vuole) più vederla.

Ma non è competizione.
La fede vera non divide, non si impone, non è trofeo.
È un dono. E come ogni dono, è libero.
Può essere accolto, può essere rifiutato… ma non può essere invidiato senza prima essere desiderato.

 Quindi se la mia fede suscita qualcosa in te, che sia domanda, rabbia o persino invidia — accoglila. È già un inizio. È già dialogo. È già sete.



Buon viaggio, Padre Francesco.

 Ti congedi, forse solo per un tratto, ma il tuo passo resta inciso nel solco del tempo.

Hai parlato con il Vangelo nelle mani e le scarpe impolverate,
hai stretto mani tremanti, guardato negli occhi i dimenticati,
e ci hai ricordato che la fede non è rifugio, ma incontro.

Ci lasci parole che non pesano come pietre,
ma come semi: attecchiranno nei cuori che hanno saputo ascoltare.

Hai portato sulla spalla le fragilità della Chiesa come un pastore porta la pecora ferita: senza clamore, con amore.
Non hai voluto essere icona, ma fratello. E proprio così sei diventato guida.

Ora vai, se è tempo di andare.
Che il vento dello Spirito ti accompagni,
che la Luce ti preceda,
e che la pace ti abiti,
come tu hai cercato di abitare il dolore del mondo con misericordia.

Con amore, nel silenzio e nella preghiera.
Buon viaggio, Papa Francesco.




da chi ha imparato qualcosa anche solo ascoltandoti in silenzio.

25 APRILE – CI SIAMO DAVVERO LIBERATI?

 Oggi si festeggia la Liberazione. Grigliate, bandiere, post commemorativi con la foto in bianco e nero del nonno partigiano che magari voterebbe gente molto diversa oggi. Tutto bello. Emozionante. Patriottico.

Ma a un certo punto, tra una salamella e un "Bella Ciao" cantata stonata, qualcuno dovrebbe chiedersi:

Ci siamo davvero liberati?

Perché a guardarci bene, sembriamo più un popolo liberato dal pensiero critico che dal fascismo. Siamo passati dal "credere, obbedire, combattere" al "comprare, scrollare, lamentarsi".

Il fascismo? Non è sparito. Ha solo cambiato outfit: adesso indossa giacca e cravatta, parla di "merito", "tradizione", "decoro urbano", e ogni tanto si commuove davanti a una targa in piazza, prima di firmare una legge contro chi protesta davvero.

E noi? Noi applaudiamo. O peggio: ci indigniamo 5 minuti su Twitter e poi torniamo a discutere di MasterChef. Siamo così liberi che ogni giorno ci facciamo raccontare la realtà da un algoritmo, ci indigniamo su comando, e votiamo chi ci dice che l’antifascismo è roba da vecchi.

 Il 25 aprile è diventato una specie di Natale laico: pieno di buoni sentimenti, zero senso critico, e con l’immancabile zio che dice "però anche i partigiani hanno fatto cose brutte".  È una Liberazione da teatro. Ma fuori scena, l’applauso è per chi mette in discussione la Resistenza, non per chi la porta avanti.

La verità? Forse non ci siamo mai liberati del tutto. Abbiamo solo chiuso il fascismo in cantina… e gli abbiamo lasciato la chiave sotto lo zerbino.

E noi? Noi postiamo la foto del partigiano con l’hashtag giusto, poi ci sediamo comodi a guardare Netflix, convinti che la libertà sia scontata, garantita, permanente.

Abbiamo sostituito la libertà con il consumo. La resistenza con la rassegnazione. L'impegno politico con l'indifferenza digitale. Siamo liberi, sì — ma di scegliere tra due offerte su Amazon.

Il 25 aprile dovrebbe essere una giornata di riflessione attiva, non una cartolina ingiallita. E la domanda vera non è se siamo liberi oggi, ma se abbiamo ancora voglia di lottare per esserlo domani. Perché la libertà non è un dono: è un processo. E la liberazione, se non diventa cultura condivisa e vigilanza costante, si trasforma in mito stanco, facilmente strumentalizzabile.

Quindi sì, celebriamo. Ma con gli occhi aperti.

VVB Francesca 



lunedì 14 aprile 2025

"L’amica geniale" di Elena Ferrante: un’epopea del nulla travestita da romanzo di formazione

 Ci hanno venduto L’amica geniale come un capolavoro sulla resilienza femminile, l’intima e potente epopea di due donne che crescono l’una accanto all’altra, reagendo a un mondo violento e patriarcale. Ma basta grattare la superficie dell’intreccio per rendersi conto che quello che ci viene raccontato non è un esempio di forza, bensì il diario lungo e a tratti insostenibile di due personaggi alla deriva, incapaci di incidere sulla propria esistenza, eternamente reattivi e mai davvero protagonisti.

Lenù e Lila: due marionette, non due eroine

Partiamo da Lenù. Vorrebbe essere la voce razionale, quella che ce la fa, la ragazza “brava” che studia, si emancipa, scrive libri. Eppure, il suo percorso non è altro che una sequenza di scelte passive. Ogni svolta nella sua vita arriva non per volontà ma per concessione o per caso: la maestra che la prende a cuore, il fidanzato accademico, la carriera editoriale. Non c’è mai, in lei, un vero moto di autodeterminazione. Nemmeno l’intelligenza che le si attribuisce sembra essere strumento di potere: è riflessa, sterile, ostaggio del giudizio altrui.

E poi c’è Lila. Ah, la famigerata Lila. Geniale, ribelle, istintiva. Una figura che dovrebbe incarnare la forza bruta della lucidità e della rabbia. Ma anche lei, se guardiamo bene, è una vittima perpetua: del quartiere, del marito, degli uomini che la usano e la temono, delle convenzioni che le stringono la gola. Ogni suo scatto d’ira, ogni gesto estremo, non è mai davvero liberatorio, ma l’ennesima reazione scomposta al caos che la circonda. Non è resilienza, è solo sopravvivenza isterica.

Ferrante dipinge un contesto soffocante, questo è indubbio: il Rione è una prigione sociale e culturale, dove ogni aspirazione è tradita o stritolata. Ma il problema è che questo sfondo ingoia tutto, protagoniste comprese. Non esiste mai un vero atto di sovversione. Non c’è trasformazione, solo spostamenti laterali. Le protagoniste non si liberano: si trascinano.

Alla fine, quello che la saga glorifica — pur senza volerlo ammettere — è una forma di eroismo dolente, un’epica della sconfitta lucida. Ma in che misura possiamo parlare di "forza" quando nessuna delle due riesce a vivere una vita autenticamente libera? È come se la serie ci dicesse che l’unica resilienza possibile è quella muta, l’adattamento alla violenza, non la rottura col sistema che la produce. Più che celebrare la forza femminile, L’amica geniale la svuota di senso, riducendola a uno spettro fragile che non riesce mai a farsi carne.


Lila è “geniale”, ce lo ripetono fino alla nausea. Ma in cosa consisterebbe questa genialità? In un'intuizione occasionale, una rabbia lucida, un’intelligenza che non trova mai forma o sbocco. Nessuna creazione, nessuna trasformazione, solo scintille nel vuoto. È un genio imploso, sterile. Un genio che non fa, ma subisce.

Il romanzo è narrato da Lenù in prima persona, con uno stile minuzioso e autoanalitico, ma invece di portare profondità, spesso scivola nell’autocompiacimento. Il pensiero gira a vuoto. Più che un racconto di formazione, sembra una confessione interminabile di insicurezze che non evolvono mai.

Ferrante dà spazio alle emozioni femminili, alle paure, ai desideri. Ma poi? Tutto resta in un flusso interiore. Le parole non diventano mai azione concreta, cambiamento, rottura. È come se la voce femminile potesse solo raccontare la sconfitta, mai riscattarla.

Tutti i personaggi maschili — Nino, Donato, Stefano, Enzo — sembrano usciti da una galleria dell’orrore sociale: egoisti, infantili, violenti, narcisisti. Ma non evolvono mai, non c’è alcuna complessità. Servono solo a far soffrire le protagoniste e a consolidare un sistema chiuso, ciclico, da cui nessuno esce. Neppure per sbaglio.

Il mondo di Ferrante è realistico, sì. Ma alla lunga si piega in un pessimismo cosmico. La violenza, la miseria, la sopraffazione… tutto si ripete in un ciclo eterno, senza via d’uscita. È come se il destino fosse scritto nel sangue, nel quartiere, nei legami tossici. E allora, dove sarebbe la resilienza? È solo rassegnazione travestita da profondità.

L’amica geniale è, in fondo, un’operazione narrativa furbissima ma anche profondamente regressiva sotto la patina del “femminismo pop”, comune a moltissime donne ridicolmente "emancipate"ma perennemente alla ricerca di "appoggi" maschili.

Per Ferrante la scrittura è una coperta di Linus. Lenù scrive per spiegare il caos, ma non lo mette mai in discussione davvero. È un atto consolatorio, non rivoluzionario.  In Ferrante la donna è sempre in bilico tra la tragedia e l’abbandono. L’introspezione non apre varchi: è circolare, sterile, quasi claustrofobica.

Le emozioni vengono accumulate, ingigantite, ma non diventano mai materia di trasformazione. È pornografia del disagio, elevata a status letterario. Le protagoniste soffrono, tanto, continuamente, ma in modo statico. Non c’è mai uno slancio etico, un gesto che valga come rottura. Solo adattamenti dolorosi.

Ferrante viene spesso elogiata per il suo stile diretto, crudo, anti-retorico. Ma a ben vedere, questa "nudità stilistica" è solo una maschera: serve a coprire la mancanza di vero rischio letterario. Non c’è sperimentazione formale, non c’è ibridazione dei generi, non c’è nemmeno una tensione filosofica vera. Le grandi scrittrici del Novecento mettevano in crisi anche la forma del romanzo. Ferrante, invece, è rassicurante. È perfetta per il club del libro: forte quel tanto che basta per sembrare profonda, ma mai davvero disturbante.

Tutto in L’amica geniale avviene in un recinto. Sociale, psicologico, narrativo. È come se Ferrante costruisse un Truman Show del disagio femminile: tutto sembra intenso, vero, tragico — ma nulla si muove davvero. Le protagoniste non rompono il meccanismo, lo abitano fino in fondo, lo raccontano, lo subiscono. E a lettura finita, resta solo un grande vuoto. Confezionato benissimo, ma pur sempre vuoto.