Ci hanno venduto L’amica geniale come un capolavoro sulla resilienza femminile, l’intima e potente epopea di due donne che crescono l’una accanto all’altra, reagendo a un mondo violento e patriarcale. Ma basta grattare la superficie dell’intreccio per rendersi conto che quello che ci viene raccontato non è un esempio di forza, bensì il diario lungo e a tratti insostenibile di due personaggi alla deriva, incapaci di incidere sulla propria esistenza, eternamente reattivi e mai davvero protagonisti.
Lenù e Lila: due marionette, non due eroine
Partiamo da Lenù. Vorrebbe essere la voce razionale, quella che ce la fa, la ragazza “brava” che studia, si emancipa, scrive libri. Eppure, il suo percorso non è altro che una sequenza di scelte passive. Ogni svolta nella sua vita arriva non per volontà ma per concessione o per caso: la maestra che la prende a cuore, il fidanzato accademico, la carriera editoriale. Non c’è mai, in lei, un vero moto di autodeterminazione. Nemmeno l’intelligenza che le si attribuisce sembra essere strumento di potere: è riflessa, sterile, ostaggio del giudizio altrui.
E poi c’è Lila. Ah, la famigerata Lila. Geniale, ribelle, istintiva. Una figura che dovrebbe incarnare la forza bruta della lucidità e della rabbia. Ma anche lei, se guardiamo bene, è una vittima perpetua: del quartiere, del marito, degli uomini che la usano e la temono, delle convenzioni che le stringono la gola. Ogni suo scatto d’ira, ogni gesto estremo, non è mai davvero liberatorio, ma l’ennesima reazione scomposta al caos che la circonda. Non è resilienza, è solo sopravvivenza isterica.
Ferrante dipinge un contesto soffocante, questo è indubbio: il Rione è una prigione sociale e culturale, dove ogni aspirazione è tradita o stritolata. Ma il problema è che questo sfondo ingoia tutto, protagoniste comprese. Non esiste mai un vero atto di sovversione. Non c’è trasformazione, solo spostamenti laterali. Le protagoniste non si liberano: si trascinano.
Alla fine, quello che la saga glorifica — pur senza volerlo ammettere — è una forma di eroismo dolente, un’epica della sconfitta lucida. Ma in che misura possiamo parlare di "forza" quando nessuna delle due riesce a vivere una vita autenticamente libera? È come se la serie ci dicesse che l’unica resilienza possibile è quella muta, l’adattamento alla violenza, non la rottura col sistema che la produce. Più che celebrare la forza femminile, L’amica geniale la svuota di senso, riducendola a uno spettro fragile che non riesce mai a farsi carne.
Lila è “geniale”, ce lo ripetono fino alla nausea. Ma in cosa consisterebbe questa genialità? In un'intuizione occasionale, una rabbia lucida, un’intelligenza che non trova mai forma o sbocco. Nessuna creazione, nessuna trasformazione, solo scintille nel vuoto. È un genio imploso, sterile. Un genio che non fa, ma subisce.
Il romanzo è narrato da Lenù in prima persona, con uno stile minuzioso e autoanalitico, ma invece di portare profondità, spesso scivola nell’autocompiacimento. Il pensiero gira a vuoto. Più che un racconto di formazione, sembra una confessione interminabile di insicurezze che non evolvono mai.
Ferrante dà spazio alle emozioni femminili, alle paure, ai desideri. Ma poi? Tutto resta in un flusso interiore. Le parole non diventano mai azione concreta, cambiamento, rottura. È come se la voce femminile potesse solo raccontare la sconfitta, mai riscattarla.
Tutti i personaggi maschili — Nino, Donato, Stefano, Enzo — sembrano usciti da una galleria dell’orrore sociale: egoisti, infantili, violenti, narcisisti. Ma non evolvono mai, non c’è alcuna complessità. Servono solo a far soffrire le protagoniste e a consolidare un sistema chiuso, ciclico, da cui nessuno esce. Neppure per sbaglio.
Il mondo di Ferrante è realistico, sì. Ma alla lunga si piega in un pessimismo cosmico. La violenza, la miseria, la sopraffazione… tutto si ripete in un ciclo eterno, senza via d’uscita. È come se il destino fosse scritto nel sangue, nel quartiere, nei legami tossici. E allora, dove sarebbe la resilienza? È solo rassegnazione travestita da profondità.
L’amica geniale è, in fondo, un’operazione narrativa furbissima ma anche profondamente regressiva sotto la patina del “femminismo pop”, comune a moltissime donne ridicolmente "emancipate"ma perennemente alla ricerca di "appoggi" maschili.
Per Ferrante la scrittura è una coperta di Linus. Lenù scrive per spiegare il caos, ma non lo mette mai in discussione davvero. È un atto consolatorio, non rivoluzionario. In Ferrante la donna è sempre in bilico tra la tragedia e l’abbandono. L’introspezione non apre varchi: è circolare, sterile, quasi claustrofobica.
Le emozioni vengono accumulate, ingigantite, ma non diventano mai materia di trasformazione. È pornografia del disagio, elevata a status letterario. Le protagoniste soffrono, tanto, continuamente, ma in modo statico. Non c’è mai uno slancio etico, un gesto che valga come rottura. Solo adattamenti dolorosi.
Ferrante viene spesso elogiata per il suo stile diretto, crudo, anti-retorico. Ma a ben vedere, questa "nudità stilistica" è solo una maschera: serve a coprire la mancanza di vero rischio letterario. Non c’è sperimentazione formale, non c’è ibridazione dei generi, non c’è nemmeno una tensione filosofica vera. Le grandi scrittrici del Novecento mettevano in crisi anche la forma del romanzo. Ferrante, invece, è rassicurante. È perfetta per il club del libro: forte quel tanto che basta per sembrare profonda, ma mai davvero disturbante.
Tutto in L’amica geniale avviene in un recinto. Sociale, psicologico, narrativo. È come se Ferrante costruisse un Truman Show del disagio femminile: tutto sembra intenso, vero, tragico — ma nulla si muove davvero. Le protagoniste non rompono il meccanismo, lo abitano fino in fondo, lo raccontano, lo subiscono. E a lettura finita, resta solo un grande vuoto. Confezionato benissimo, ma pur sempre vuoto.
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