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venerdì 29 novembre 2024

Uno Sguardo dal Ponte (1962): La Potenza della Recitazione e la Cupa Oscurità dei Desideri Umani

 







Uno Sguardo dal Ponte (Vu du pont, 1962), diretto da Sidney Lumet e basato sull'opera teatrale di Arthur Miller, è un film che ci immerge in un mondo di passioni soffocate, desideri repressi e tragiche illusioni. La pellicola è una straordinaria riflessione sulla gelosia, sull'onore e sul tradimento, con una forza emotiva che non lascia scampo, incatenando lo spettatore in un vortice di tensione e fatalismo. A fare da perno a questa drammatica e cupa storia è la performance straordinaria di Raf Vallone, che interpreta Eddie Carbone, un uomo consumato da desideri ambigui e da una frustrazione che non riesce più a nascondere.

Il film è ambientato in un quartiere del Brooklyn degli anni '50, dove Eddie, un longshoreman (operaio portuale), vive con la moglie Beatrice e la nipote Catherine, cercando di mantenere un'apparente stabilità familiare. Tuttavia, sotto questa facciata di normalità, cresce una tensione latente, una smania che turba l'animo di Eddie e lo spinge a compiere scelte che porteranno inevitabilmente a un tragico epilogo. Il rapporto che Eddie ha con Catherine, giovane e desiderosa di libertà, è ambiguo, segnato da un amore possessivo che sfocia in una gelosia ossessiva nei confronti del fidanzato di lei, Rodolpho, un giovane immigrato italiano.

La recitazione di Raf Vallone è il cuore pulsante del film. La sua interpretazione di Eddie Carbone è intensa, angosciante e, per molti versi, una vera e propria lezione di cinema. Vallone riesce a incarnare alla perfezione il tormento interiore del suo personaggio, portando sullo schermo un uomo intrappolato tra il suo onore, le sue paure e i suoi desideri proibiti. Ogni parola che pronuncia, ogni sguardo che lancia, trasmette una potenza emotiva che lascia il pubblico senza respiro. La sua performance non è solo recitazione, è una manifestazione di un conflitto psicologico che si agita dentro Eddie come una tempesta inarrestabile. L'intensità con cui Vallone ci fa vivere il disfacimento interiore di Eddie è tale che, quando il suo personaggio raggiunge il punto di rottura, non possiamo fare a meno di sentirne il peso.

Questa recitazione da manuale gli valse giustamente il David di Donatello come miglior attore protagonista, un premio che celebra la sua capacità di dare vita a un personaggio così complesso e struggente. Ogni scena che lo vede protagonista è un colpo al cuore: dai suoi tentativi di mantenere l'apparenza di un uomo di famiglia onesto, alla sua discesa nell'ossessione e nel delirio, Vallone ci offre una performance che resta impressa a lungo dopo che il film è finito.

La regia di Lumet è altrettanto magistrale nel sottolineare la claustrofobia e l'inevitabilità del destino di Eddie. La fotografia, con le sue luci e ombre nette, contribuisce a creare un'atmosfera opprimente, in cui ogni piccolo gesto sembra avere il peso di una condanna. La storia, pur essendo un adattamento di una piece teatrale, si svolge in un contesto che sembra allargarsi e avvolgere lo spettatore, rendendo l'intera vicenda ancora più tragica e universale. Il mondo di Eddie non è solo il suo, ma è il riflesso di un contesto sociale e culturale che, come una prigione, limita le sue azioni e ne acuisce le frustrazioni.

Uno Sguardo dal Ponte è, infatti, un film intriso di cupi desideri e di aspettative non soddisfatte, in cui ogni personaggio è segnato dalla propria condizione sociale e personale. La passione di Eddie per Catherine non è solo la passione di un uomo per una donna, ma è il desiderio di potere e controllo, l'aspirazione a mantenere intatto un ordine familiare che ormai è insostenibile. La sua gelosia, che diventa via via più pericolosa, è una metafora della sua incapacità di accettare i cambiamenti, di lasciare andare ciò che non può più trattenere. In questo senso, il film esplora temi universali come l'onore, la vergogna e la distruzione del proprio mondo interiore, in un contesto che non è solo personale, ma anche sociale, con la figura dell'immigrato che incarna l'alterità e il cambiamento in un mondo che non è pronto a evolversi.

Il finale del film è una terribile catarsi, un'esplosione di violenza che risulta inevitabile, ma che lascia lo spettatore con un senso di impotenza, come se il destino di Eddie fosse segnato fin dal primo istante. La tragicità della sua condizione, unita all'intensità della recitazione di Vallone, crea un'esperienza cinematografica che è difficile da dimenticare.

In conclusione, Uno Sguardo dal Ponte è un film che colpisce dritto al cuore, grazie alla straordinaria interpretazione di Raf Vallone e alla direzione impeccabile di Sidney Lumet. È una storia di desideri oscuri, di gelosia, di frustrazione, che esplora i confini tra passione e ossessione, tra amore e distruzione. La forza di questa pellicola risiede nel suo sguardo crudo e senza compromessi sulla condizione umana, che, purtroppo, non lascia spazio alla redenzione. Un capolavoro che resta impresso nella memoria per la sua potenza emotiva e la sua tragicità senza tempo.



Umberto D. (1952) di De Sica : Un’Emozione Universale di Dignità e Solitudine

 





Umberto D. è un film che tocca le corde più profonde dell'animo umano, un'opera che non solo racconta la storia di un uomo in difficoltà, ma riesce a trasmettere l’essenza stessa della fragilità e della dignità umana. Con questo capolavoro del neorealismo italiano, Vittorio De Sica riesce a creare una storia che non è solo triste, ma dolorosamente vera e, allo stesso tempo, incredibilmente piena di speranza. È una di quelle opere cinematografiche che ti entra nel cuore e che non ti lascia mai.

La trama del film ruota attorno a Umberto Domenico, un uomo anziano che vive in una povertà disperata, con una pensione insufficiente a coprire i suoi bisogni e una vita segnata dall’abbandono. La sua solitudine è straziante, ma il film non si limita a mostrarci solo la sua miseria: ci fa sentire la sua solitudine, la sua paura di essere dimenticato, di non riuscire a mantenere la sua dignità. La sua lotta quotidiana per sopravvivere è una rappresentazione di quelle piccole guerre che molti di noi affrontano in silenzio e senza speranza.

L’interpretazione di Carlo Battisti nel ruolo di Umberto è semplicemente straordinaria. Ogni gesto, ogni sguardo, ogni silenzio di Umberto sembra portare con sé un’intera vita di sofferenze e di sogni infranti. Battisti non recita, vive e respira nel personaggio, rendendo ogni scena carica di una forza emotiva che lascia senza fiato. La sua è una figura di uomo invecchiato, che ha perso quasi tutto, ma che ancora tenta, con tutte le sue forze, di mantenere intatta la sua dignità. Ogni passo di Umberto, dalla sua disperazione alla sua tenacia, è carico di una umanità che risuona con chiunque abbia mai conosciuto la solitudine o il dolore.

Il film è un viaggio intimo che ci accompagna nel cuore del mondo di Umberto, ma in realtà nel cuore di tutti noi. Ogni scena è intrisa di una tristezza che non è mai solo malinconia, ma una tristezza che è anche dignità, una dignità che Umberto non vuole perdere a qualsiasi costo. Anche nei momenti più disperati, quando tutto sembra perduto, c'è una forza silenziosa che resiste, che si riflette negli occhi di Umberto e nel suo rapporto con il suo fedele cane, Flike. La presenza di Flike non è solo un elemento narrativo, ma diventa il simbolo di un legame profondo, che va al di là della solitudine fisica, un legame che, purtroppo, Umberto rischia di vedere spezzato dalla realtà che lo circonda.

La fotografia di Umberto D. è altrettanto straordinaria. La luce, che spesso gioca tra ombre e luci soffuse, sottolinea la solitudine del protagonista e l’indifferenza di un mondo che sembra averlo dimenticato. Ogni dettaglio, dalle strade di Roma agli ambienti angusti in cui Umberto vive, contribuisce a creare un'atmosfera di sofferenza che diventa quasi tangibile, come se il paesaggio stesso fosse una prolungata riflessione sulla condizione del protagonista.

Ciò che colpisce di Umberto D. è la sua semplicità. Non ci sono colpi di scena, non ci sono drammi esasperati, ma la tensione emotiva è altissima, proprio perché è una sofferenza che tutti possiamo riconoscere, in modo o nell'altro. De Sica ci porta a riflettere su temi universali: la dignità, la solitudine, la povertà, ma anche la speranza, che si nasconde nei luoghi più oscuri. Umberto è un uomo che non vuole arrendersi, che non vuole essere invisibile, che non vuole essere un peso. È una lotta umana, senza glamour, senza giustificazioni, ma con un’emotività che lascia il segno.

Il film termina con un finale che è struggente nella sua semplicità, ma che lascia anche una sensazione di speranza, nonostante tutto. Il cammino di Umberto, pur segnato dalla disperazione, ci parla di una resistenza interiore che non può essere spezzata dalle difficoltà esterne. La sua dignità è qualcosa che nessun altro può togliergli, nemmeno la solitudine più assoluta.

Umberto D. è una delle pellicole più commoventi e potenti mai realizzate. È un film che non chiede pietà, ma che offre una profonda riflessione sulla condizione umana. E quando il film finisce, ti accorgi che la sua tristezza non è stata solo una manifestazione di dolore, ma una celebrazione della forza che c'è anche nei momenti di apparente debolezza. Un film che non solo racconta una storia, ma che fa parte della storia stessa del cinema e della nostra vita.

La Grande Ambizione: Un Tributo Magistrale a Berlinguer










La Grande Ambizione (2024) è un film che non solo celebra la figura di Enrico Berlinguer, ma riesce a trasmettere, con straordinaria intensità, l'eredità politica e umana di uno dei più grandi leader italiani del Novecento. La pellicola non si limita a raccontare la carriera di Berlinguer, ma la rivive in tutta la sua complessità, tra luci e ombre, mettendo in scena un uomo che ha avuto il coraggio di sfidare il potere, di porsi come punto di riferimento per il cambiamento, e di perseguire con ostinazione un ideale di giustizia e equità.

Fin dal primo fotogramma, La Grande Ambizione cattura lo spettatore in un vortice di emozioni e riflessioni. La regia riesce a dar vita a un racconto dinamico e coinvolgente, che non scivola mai nel biografico banale, ma esplora davvero il cuore pulsante della politica di Berlinguer: la sua visione, la sua integrità, ma anche le difficoltà e le contraddizioni che ha dovuto affrontare lungo il suo percorso. Il film si muove attraverso i momenti salienti della sua carriera, dalla sua ascesa nella segreteria del Partito Comunista Italiano alla famosa "svolta della Bolognina", con una narrazione avvincente che tiene il pubblico incollato alla poltrona.

La vera forza di La Grande Ambizione, però, risiede nella performance incredibile dell'attore protagonista. La sua interpretazione di Berlinguer è semplicemente magistrale: riesce a catturare non solo l'aspetto pubblico del leader, ma anche le sue tensioni interiori, il suo senso di solitudine e la sua visione intransigente della politica. Ogni sguardo, ogni parola, ogni gesto dell'attore ricrea la figura di Berlinguer in modo autentico, tanto che sembra di vedere il vero Berlinguer vivere di nuovo sullo schermo.

Il film esplora anche l'evoluzione del contesto storico e politico, con una capacità straordinaria di contestualizzare gli eventi attraverso gli occhi di Berlinguer. La sceneggiatura è ricca di dettagli storici, ma non si perde mai in tecnicismi o spiegazioni forzate, rendendo la vicenda accessibile a tutti, anche a chi non ha una conoscenza approfondita della politica italiana. Il contesto degli anni '70 e '80, con il suo clima di tensioni politiche e sociali, è ricreato con cura, e ogni scena sembra immersa in un'atmosfera di grande verosimiglianza.

Uno degli aspetti più affascinanti del film è come riesca a delineare il lato umano di Berlinguer, il suo equilibrio tra ideale e realismo, la sua lotta per mantenere saldi i valori della sinistra in un contesto sempre più complicato. Nonostante il suo essere un uomo di partito, il film ci mostra anche il Berlinguer più intimo, l’uomo che cercava di rimanere fedele ai suoi principi pur affrontando un mondo che sembrava spesso andare in direzione opposta. La sua "grande ambizione", come suggerisce il titolo, non era quella del potere, ma quella di costruire un'Italia migliore, più giusta, e questo è ciò che il film riesce a trasmettere in modo potente e commovente.

Inoltre, la colonna sonora, impeccabile, accompagna ogni fase della sua carriera con toni che vanno dal drammatico all'ispirato, aggiungendo ulteriore profondità emotiva alla storia. Le scelte musicali non sono mai invadenti, ma sottolineano perfettamente le emozioni e le sfide di Berlinguer.

La Grande Ambizione non è solo un film biografico, ma un'opera che invita alla riflessione sulla politica, sull'etica e sul senso di appartenenza. Rivedere la carriera di Berlinguer attraverso il cinema è un’opportunità rara di riscoprire un uomo che ha avuto il coraggio di lottare per le proprie convinzioni in un periodo di grandi cambiamenti e difficoltà. Questo film non solo rende omaggio alla sua figura, ma stimola anche una discussione importante sul ruolo della politica e dei suoi protagonisti, oggi più che mai.

In conclusione il film è un omaggio potente e commovente a uno degli uomini più rilevanti della storia politica italiana. Un must per chiunque voglia comprendere la profondità della politica e la forza di un individuo impegnato in un’idea più grande di sé.

Anna: Un'Isolata Senza Profondità






Anna (2023) si presenta come un film intrigante, ma il personaggio principale, Anna, risulta problematico sotto diversi aspetti, specialmente per quanto riguarda il suo comportamento asociale, che, anziché essere una caratteristica affascinante o una traccia di profondità psicologica, finisce per sembrare forzato e poco credibile. Il comportamento di Anna non solo è difficile da comprendere, ma la sua mancanza di interazioni sociali, di empatia e di qualsiasi desiderio di connessione con gli altri crea un muro emotivo tra lei e lo spettatore.

Il film sembra voler dipingere Anna come un personaggio introverso e tormentato, ma il suo isolamento sociale appare più come un espediente narrativo che una vera caratteristica del suo carattere. La sua incapacità di costruire legami genuini non viene mai realmente esplorata o motivata in maniera profonda, lasciando lo spettatore a chiedersi se questo comportamento asociale sia davvero il riflesso di un trauma psicologico o se semplicemente il film non sia riuscito a dare al personaggio una vera motivazione per le sue azioni.

Inoltre, Anna sembra completamente distaccata da qualsiasi senso di responsabilità verso le persone che la circondano, il che contribuisce ad alimentare una sensazione di alienazione. Questa assenza di interazione umana non è trattata come una condizione psicologica complessa, ma come una scelta narrativa che alla lunga risulta noiosa e frustrante. Il suo comportamento non si evolve, nonostante gli eventi che accadono attorno a lei, e ciò rende difficile empatizzare con il personaggio.

Anche la sua totale assenza di empatia verso gli altri, in particolare verso i personaggi con cui è costretta a interagire, appare irreale. In un film che cerca di esplorare le sfumature psicologiche e le difficoltà umane, questo aspetto di Anna, senza alcuna evoluzione o spiegazione plausibile, appare come una scelta registica che limita il potenziale emotivo della storia. In questo senso, il comportamento asociale di Anna non contribuisce alla narrazione, ma la ostacola, facendo sembrare il film più un esercizio di stile che una vera esplorazione della condizione umana.

In conclusione, il personaggio di Anna risulta una figura monodimensionale e poco convincente, il cui comportamento asociale non solo disturba il fluire della trama, ma impedisce anche una connessione emotiva con il pubblico. Sebbene il film tenti di esplorare temi complessi, la gestione del personaggio principale non riesce a far emergere la profondità che ci si aspetterebbe da un’opera che affronta tali tematiche.

martedì 26 novembre 2024

"Auguri di Fine Anno a Paltalk: Il Manicomio Digitale che Nessuno Vuole Ammettere di Amare 🚨🤪

 Ascoltate, branchi di schizofrenici seriali connessi! Siamo sopravvissuti a un altro anno nel paradiso dei disturbi relazionali chiamato Paltalk.

Qui l'unica cosa più instabile delle vostre connessioni internet sono i vostri equilibri mentali. Dove un ban è un abbraccio, un insulto è un saluto d'amore, e cambiare nick è come indossare un nuovo paio di mutande: necessario e rigenerante.

Ai troll professionisti: voi siete i veri artisti concettuali di internet. Fate dell'hate speech una performance degna di Marina Abramović. Siete più imprevedibili di un algoritmo impazzito   di ChatGPT dopo aver bevuto vodka.


Alle amicizie nate in questo mattatoio virtuale: siete la prova scientifica che l'evoluzione umana non è poi così lineare. Tipo: "Ci siamo conosciuti mentre mi chiamavi figlio di..." - Storia d'amore più romantica di Titanic.

Ai serial bannati: voi siete i ribelli, i martiri di questo sistema. Ogni ban è un diploma di laurea in "Anarchia Digitale". Se la chat fosse un liceo, voi sareste quelli bocciati ma più interessanti dei professori.

Ai moderatori: siete degli eroi. State gestendo un branco di scimmie incattivite con la tastiera. Il vostro lavoro è peggio di quello di un domatore di leoni con l'influenza.

Quest'anno, promettiamo di continuare a essere la più bella comunità di disagiati connessi. Continueremo a litigare, a farci due risate, a cancellarci e riconnetterci come in una relazione tossica con internet.

Promettiamo di continuare a essere la comunità più disfunzionale, adorabile e FOLLE del web. Dove l'unica cosa più veloce degli insulti sono i nuovi nick.

Buon Anno, pazzi connessi! Che il 2025 sia ancora più borderline di questo. 🎆🍾

P.S. Il mio regalo di Capodanno? Un ban creativo, uno screenshot epico e una terapia collettiva.

W  Paltalk! 🤘" (dove l'amarezza si maschera da leggerezza)

"Propositi di Natale 2024: Una Resa dei Conti Esistenziale 🎄🔪

 

Ascoltate, anime perse e disadattate. Stiamo per entrare nell'unica stagione dell'anno dove la follia collettiva viene spacciata per magia natalizia. Quest'anno ho deciso di essere più esplicita del solito. Preparatevi.

Iniziamo dai single. Oh, i single! Siamo quella razza di esseri umani che ha capito l'unica verità universale: le relazioni sono solo un modo sofisticato per procurarsi traumi emotivi. Le nostre app di dating? Un campo di battaglia peggio delle trincee della Prima Guerra Mondiale. Swipe a destra, swipe a sinistra - stiamo essenzialmente giocando a "Trova il Meno Peggio".

E quando dico "meno peggio", intendo davvero il minimo sindacale. L'altro giorno ho visto un profilo dove uno scrive: "Cerco l'amore della mia vita". Traduzione: "Cerco qualcuno che mi sopporti per più di tre appuntamenti consecutivi". Statisticamente, è più probabile beccare il bigfoot.

Poi abbiamo i fidanzati. Oh, i fidanzati! Quelli che postano foto perfette sui social e poi li becchi a litigare sul fatto che lui ha lasciato il tappo del dentifricio aperto. Matrimonio? No, guerra fredda domestica. E quando vengono alle cene di Natale? Dio ti salvi. Sono peggio dei testimoni di Geova - vogliono convertire tutti al loro status di "coppia felice".

Le famiglie poi. Le famiglie sono un esperimento sociale disturbato. A Natale diventano quella pentola a pressione dove tutti fingono di amarsi, ma sotto sotto non vedono l'ora di pugnalarsi verbalmente. Zio Mario che parte con le sue teorie complottiste, zia Giovanna che giudica tutti, il cugino che non ha ancora trovato lavoro a 35 anni. Un cast degno di una sitcom distopica.

I matrimoni? Non scherziamo. Sono solo contratti legali con cerimonie care. Hai mai visto uno sposarsi pensando "Wow, non vedo l'ora di dividere le bollette e litigare sui piatti sporchi"? No. Eppure è esattamente quello che succede.

Quest'anno il mio proposito è sopravvivere. Sopravvivere a questi circhi sentimentali con la grazia di un cecchino: precisa nei commenti, cinica nelle osservazioni, e pronta a smontare qualsiasi narrazione romantica più velocemente di quanto uno possa dire "Matrimonio".

Perché vedete, l'unico rapporto stabile che mi interessa è quello con me stessa. E con Netflix. Almeno loro non mi deludono mai.

Buon Natale, disadattati! Ci vediamo dall'altra parte di questa follia collettiva che chiamiamo 'amore'. 🎅🏼🍷

P.S. Se qualcuno cerca il mio regalo di Natale, accetto solo gift card e terapia pagata. Grazie."





domenica 24 novembre 2024

CATERINA SFORZA : il silenzio della forza




“Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo” fu una delle ultime cose che disse. La città è Forlì, la giovane donna è Caterina Sforza. Venne in Romagna poco più che bambina, sposa di Girolamo Riario che avrebbe ottenuto la Signoria di Imola e di Forlì. Di seguito si riassume in mille parole la sua vicenda. Caterina, figlia naturale del duca di Milano, aveva appena dieci anni quando andò in sposa al marito trentenne. Nel luglio del 1481 la coppia prenderà possesso di Forlì chiedendo fedeltà, Riario tolse tasse e dazi sul grano e su altro, come si conviene. Lo zio Papa morì e il nuovo Signore dovette ben presto rimangiarsi la parola battendo cassa. Il malcontento montò specialmente perché la sua iniziativa fiscale non risparmiava le famiglie più ricche né la nobiltà. Nel giro di pochi anni, quindi, furono orditi numerosi intrighi e congiure: nel 1487 un tentativo di rivolta fu sedato grazie a una soffiata che informò la giovane donna salvando la situazione.

L'anno successivo, però, il colpo andò a segno: la trama della congiura era stata ordita dall'opulenta famiglia degli Orsi con l'appoggio degli Ordelaffi e del Papa (Innocenzo VIII) nonché di Lorenzo de' Medici che ancora aveva il dente avvelenato per la congiura dei Pazzi. Insomma, l'uomo aveva attratto a sé gli strali dei forlivesi ricchi e poveri, e dei potenti non solo locali. Il 14 aprile 1488 Girolamo Riario fu assassinato a pugnalate e defenestrato. Il Palazzo del potere fu messo a sacco mentre la moglie Caterina con i figli fu incarcerata. La giovane donna, astuta, riuscì a sfruttare la sua arguzia per riprendersi la Rocca di Ravaldino. Questo passaggio è spesso raccontato con toni epici e solo verosimilmente storici: Caterina, di nuovo padrona della sua rocca, rispose alle minacce di ritorsione sui figli mostrando le sue parti intime gridando: “Impiccateli pure, qui ho lo strumento per farne altri”. Avvenne tutto così in fretta che i congiurati gioirono per due settimane: il 29 aprile, Caterina Sforza avocò a sé la reggenza della città dimostrandosi una valentissima donna d’arme.

La vendetta della Tigre contro i congiurati fu tremenda. Secondo la sua volontà, fu raso al suolo un isolato sontuoso nel cuore di Forlì appartenente alla famiglia dei congiurati (gli Orsi), il cui capo, anziano, fu costretto ad assistere alla distruzione e fu giustiziato in piazza. Il “guasto degli Orsi” comportò macerie e lo scempio di una famiglia ricca e influente. Da quel momento, Caterina, in nome del figlio Ottaviano Riario, governò Forlì e Imola diventando un crocevia della storia rinascimentale: il suo piccolo Stato faceva gola a molti. Potenziò così le strutture difensive del suo dominio, in particolare si concentrò sulla Rocca di Ravaldino dove costruì il Paradiso, il suo palazzo. A questo punto Caterina s'era innamorata sul serio. Di Giacomo Feo, un ventenne che sposerà in segreto. Restarono insieme per quattro anni avendo tutti contro, figli compresi; il giovane marito, borioso e vanesio, cadrà ucciso in un agguato nell’estate del 1495. L’organizzatore dell’attentato era convinto che il primo ordine di uccidere Feo fosse venuto proprio da Caterina. Ma ella era all’oscuro di tutto e la vendetta fu terribile. Perseguitò le famiglie traditrici, perfino i bambini in fasce, perfino le amanti, con una crudeltà così folle che si alienò ogni simpatia del popolo.


Nel 1497 s’innamorò di un altro uomo: Giovanni de’ Medici detto “Il Popolano”. Dal matrimonio, nel 1499 nacque un figlio che poi sarà noto come Giovanni dalle Bande Nere, padre di Cosimo I de’ Medici, il primo Granduca di Toscana. Caterina non dimenticò le sue abilità nell’arte della guerra e saprà difendere il suo territorio da Venezia tanto da meritarsi ancora una volta l’appellativo di Tigre di Forlì. Tuttavia, la sua storia si avvicinava all’epilogo. Ecco un giovane condottiero, figlio del papa regnante: Cesare Borgia, detto il Duca Valentino. Lo scontro fu epico, preceduto da un’ambasciata di Machiavelli che raggiunse Caterina Sforza a Ravaldino per convincerla di un’alleanza con Firenze contro Pisa, ma ella lo congedò tra vaghe promesse. Ebbene, arrivò il giovane Borgia e Caterina non offrì particolare resistenza: prima cadde Imola, poi si arrese Forlì. Intanto, le truppe del figlio del Papa si dedicavano ai saccheggi e ai soprusi comuni a quel tempo e Forlì, dal 19 dicembre 1499, è interamente controllata da 14 mila invasori. I forlivesi potenti o erano già saliti sul carro del vincitore, o studiavano la situazione non lesinando inchini al Valentino.

E poi c’era lei, Caterina, rinserrata nella sua rocca, città-Stato, con il suo piccolo esercito. Il Duca stesso, immaginandosi una Romagna Stato con lui, per evidenti raccomandazioni, a capo, iniziò a farsi benvolere dal popolo, rispondendo alle denunce dei soprusi che i suoi soldati stavano continuando a perpetrare. Dopo un Natale passato in famiglia, con il cardinal cugino Giovanni, legato di Bologna, Cesare Borgia diede la buona notizia al Papa suo padre della presa di Forlì, anche se la Rocca era ancora di Caterina. La battaglia definitiva iniziò nei giorni successivi, tra bombardamenti e trattative. La “guerra lampo”, però, non finì nei tempi previsti, Caterina resisteva, e iniziarono a scoprirsi i nervi del Borgia. L’assalto finale ebbe luogo il 10 gennaio: le bombarde lanciarono proiettili giorno e notte contro Ravaldino. Finì male per Caterina che da sola aveva affrontato i quindicimila armati e le artiglierie del Re di Francia, forse per demerito di uno dei suoi. Borgia vinse, ma per poco, il 12 gennaio 1500. Caterina, dapprima imprigionata, fu portata a Roma, quindi finì la sua esistenza nel 1509 a Firenze a 46 anni. Negli ultimi tempi aveva approfondito il suo interesse per la medicina, l’alchimia e la cosmetica, raggiungendo grandi risultati anche in questo campo di ricerca.


https://www.forlitoday.it/blog/il-foro-di-livio/Storia-caterina-sforza.html






Caterina Sforza, la "Contessa Guerriera", rimane una delle donne più straordinarie della storia del Rinascimento. La sua vita, segnata dalla tragedia, dalla lotta e dalla resilienza, è una testimonianza del potere e dell'influenza che una donna, anche in un contesto patriarcale, può esercitare. La sua storia non è solo quella di una donna che ha combattuto per la sua famiglia e i suoi possedimenti, ma anche quella di una persona che ha lottato per il proprio onore, per la propria libertà e per la propria indipendenza.


Caterina è una figura che non smette di incantare, ma anche di scuotere, per la forza, la determinazione e il coraggio con cui ha affrontato le sfide della sua vita. Guardarla attraverso gli occhi di una donna, oggi, suscita un misto di ammirazione e riflessione profonda. Le sue scelte, la sua resistenza, il suo sguardo tenace verso il mondo maschile che la circondava, ci parlano di un'incredibile lotta non solo per la sopravvivenza, ma per il diritto di essere al comando del proprio destino.

Viviamo in un'epoca che purtroppo è ancora impregnata di disuguaglianza, ma Caterina visse in un contesto ben più ostile: una donna nel Rinascimento, in un mondo che la vedeva come una pedina nelle mani degli uomini, una "proprietà" da sposare, da difendere o da usare per alleanze politiche. Eppure, quando il destino le tolse tutto — marito, alleanze, e persino la sicurezza della sua terra — lei non si piegò. Al contrario, con straordinario coraggio, assunse il ruolo di comandante, di leader, di guerriera.

Le sue battaglie non furono solo politiche, ma anche interiori. Ogni giorno, Caterina ha dovuto affrontare il peso della sua condizione di donna in un mondo che minimizzava e ignorava il suo valore. Ogni passo che ha fatto nel mondo della guerra e della diplomazia è stato un atto di sfida. Un atto che ha dovuto compiere sapendo che ogni errore, ogni cedimento, sarebbe stato usato contro di lei, non solo da chi le era nemico, ma anche dalla società stessa, che non tollerava che una donna avesse così tanto potere.

Eppure, quel suo sguardo implacabile, quella sua forza che la faceva chiamare "la leonessa di Romagna", non sono frutto di un atteggiamento ostentato. Non era una donna che cercava la guerra, ma una donna che ha scelto di combattere quando non c'era altra via, quando ogni altra porta era stata chiusa. La sua determinazione nasceva dal desiderio di proteggere ciò che amava — la sua famiglia, la sua terra, la sua identità — ma anche dalla necessità di affermare la sua umanità in un mondo che le diceva continuamente che lei non aveva diritto di esistere al pari degli uomini. Caterina ci insegna che, quando ci viene tolto tutto, non resta che la nostra capacità di reagire, di resistere, di rialzarci anche quando il mondo ci spinge a cedere.

La sua vita è anche un racconto di solitudine e di sacrificio. La madre di tre figli, vedova giovane, costretta a portare sulle sue spalle un onere che pochi uomini avrebbero avuto il coraggio di affrontare. Eppure, non si fermò. Non si fermò neppure quando venne imprigionata, umiliata, quando la sua città fu presa d'assalto. Caterina non si rassegnò mai. La sua lotta non fu solo per il potere, ma per l'onore, per la dignità, per il diritto di essere ascoltata e rispettata in quanto donna, madre, e leader.

Se oggi ci troviamo a lottare, ognuna di noi, per il nostro spazio nel mondo, per la nostra voce, per il nostro corpo, Caterina ci ricorda che anche in un contesto di infinita ostilità possiamo risvegliare la nostra forza interiore. La sua vita ci insegna che non siamo mai sole, anche quando ci sembra che il mondo stia per schiacciarci. Caterina ci invita a non avere paura di mostrarci per ciò che siamo: forti, fragili, complesse, ma mai pronte a soccombere.

Come donna, riflettere su Caterina è un atto di potere. Non un potere che annienta gli altri, ma un potere che nasce dal profondo, dalla consapevolezza di noi stesse, dalla nostra capacità di scegliere, di resistere, di amare, di costruire e, quando necessario, di distruggere ciò che ci limita. Caterina Sforza ci insegna che anche nella solitudine più buia possiamo trovare la nostra forza. E che, ogni volta che una donna sceglie di combattere, non lo fa mai solo per se stessa, ma per tutte le altre che sono venute prima di lei, e per quelle che verranno dopo.


Caterina , nella solitudine della sua stanza o nei silenzi notturni del castello, deve aver saputo, come tutte noi, che il peso del mondo ti si fa sentire più forte quando sei da sola, quando nessuno ti vede, quando nessuno ti ascolta davvero. Immagino che fosse così anche per lei, quando non c’erano più mani da stringere o parole di conforto. Quando la battaglia non era più fuori, sul campo, ma dentro, nell’intimità dei suoi pensieri.

Mi chiedo se, in quei momenti, Caterina si fosse mai sentita stanca. Stanca di lottare, stanca di essere sempre quella che non si piega. Perché la forza, a volte, non è solo una scelta, è una necessità. Non è solo il coraggio di affrontare un nemico o di comandare una truppa; è quella forza che ti fa alzare ogni giorno, che ti fa andare avanti quando ti senti sola, quando il dolore ti scuote, quando la paura ti sussurra che forse sarebbe più facile arrendersi. Ma Caterina non lo fece mai. Non perché fosse invincibile, ma forse proprio perché sapeva quanto fosse vulnerabile.

Sapeva che, come tutte le donne, la sua vita sarebbe stata scritta da qualcun altro, che le sue scelte sarebbero state analizzate, giudicate, e spesso ridotte a qualcosa di superficiale: una donna, una madre, una vedova che gioca con il potere. Ma, nel profondo, dove nessun altro poteva arrivare, Caterina lo sapeva: il suo vero potere non era quello di governare terre o comandare uomini. Il suo vero potere era nella sua capacità di sopravvivere, di fare di ogni sconfitta una nuova occasione, di non lasciarsi schiacciare da un mondo che cercava continuamente di metterla a tacere.

Mi piace pensare che, mentre il mondo la guardava da fuori, lei nel suo cuore si domandava come fare, come andare avanti, come trovare la forza per il passo successivo. Eppure non si fermava. Non si fermava mai, anche quando la sua vita sembrava sgretolarsi attorno a lei. E non lo faceva solo per sé, ma per i suoi figli, per la sua famiglia, per il suo nome. Caterina aveva un altro tipo di amore, forse più difficile da capire: quello di chi sa che la lotta non è mai solo per il presente, ma per qualcosa di più grande, che supera la propria vita, che dura oltre.

E poi c'è quel momento in cui, presa dalle circostanze, ha visto la sua città cadere, il suo mondo frantumarsi, e ha scelto di non cedere. Non lo fece con la spavalderia di chi sa già di vincere, ma con la consapevolezza che cedere avrebbe significato annullarsi. Ma quella consapevolezza non veniva da una forza sopraffina, ma dalla consapevolezza delle sue fragilità, dalla necessità di restare intatta dentro, nonostante tutto. Perché, in fondo, Caterina sapeva che la vera lotta non era mai con gli altri, ma con se stessa. La battaglia per non cedere, per non perdere la propria identità, per non diventare qualcun altro solo perché la vita ti spinge a farlo.

Ecco, vedo Caterina come una donna che ha imparato a convivere con la propria solitudine e con la propria forza. Non una guerriera senza paura, ma una donna che ha dovuto scegliere ogni giorno di andare avanti, anche quando tutto sembrava dire il contrario. Che ha dovuto fare spazio in sé per la paura, il dolore, la rabbia, ma anche per quella piccola scintilla di speranza che non la abbandonava mai. Forse, alla fine, non era la sua armatura a renderla forte, ma proprio quella vulnerabilità che la rendeva umana, che le permetteva di sentire la gravità della perdita e il peso della solitudine, senza però lasciarsene sopraffare.

Caterina non cercava la gloria. Forse nemmeno la vendetta. Cercava solo di non spegnersi, di non farsi sopraffare dal mondo che non le dava scelte, che la costringeva a combattere ogni giorno, a non piegarsi mai. E mentre gli uomini la vedevano solo come una sfida da conquistare o un ostacolo da abbattere, lei sapeva, in fondo, che la sua vera forza era quella di non cedere mai alla tentazione di arrendersi. E lo faceva, perché sapeva che, a volte, sopravvivere è già una vittoria.

A noi, oggi, resta solo il compito di non dimenticare questa lezione silenziosa di Caterina: che la lotta più grande non è quella che vedono gli altri, ma quella che si svolge nel nostro cuore, ogni volta che dobbiamo scegliere di andare avanti, anche quando sembra che non ci sia più nulla da perdere.


GIULIA TOFANA : il veleno della libertà

 




Giulia Tofana, il suo nome è scolpito nella storia come quello di una donna che, nell'ombra della sua epoca, ha scritto un capitolo doloroso e, insieme, coraggioso. La sua vicenda affonda le radici in un’epoca in cui le donne erano, più che mai, merce di scambio nelle mani di padri, mariti e società, relegate a ruoli marginali, privi di diritti e di voce. La sua storia è quella di una sopravvivenza non solo fisica, ma anche emotiva e psicologica, in un mondo che le voleva silenziose, obbedienti e sottomesse.

Giulia nasce, si dice, tra la fine del 1500 e l'inizio del 1600 a Palermo, città che all'epoca, sotto il dominio spagnolo, viveva il suo massimo splendore. Eppure, al di là della bellezza dei palazzi barocchi e delle sfarzose corti nobiliari, si celava un'altra realtà, fatta di sofferenza, disuguaglianza e repressione per le donne. A quel tempo, l'idea di un matrimonio non era un atto di amore, ma un’alleanza sociale e politica, e per le donne, troppo spesso, un destino tragico.

Era un'epoca in cui il matrimonio significava la subordinazione totale: le donne erano confinate a una vita domestica, con pochi diritti e molte, troppe, sofferenze. In questa cornice si inserisce la figura di Giulia Tofana, una donna che, pur essendo anch'essa prigioniera di quel sistema, riuscì a diventare una delle figure più enigmatiche e, in qualche modo, liberatorie della sua epoca.

Giulia non fu solo una persona che creò un veleno letale, ma una sorta di “ultima spiaggia” per tutte quelle donne che, schiacciate dalla violenza e dalla repressione, non avevano alcuna via di fuga. Le leggi dell’epoca non proteggevano le donne maltrattate: il divorzio era impensabile, l'infedeltà del marito era considerata peccato, ma la violenza domestica, fisica ed emotiva, era considerata una “norma”. Non c’era spazio per l’autoaffermazione, non c’era rifugio per chi voleva scappare dalla gabbia di un matrimonio violento. Le donne non avevano il diritto di decidere, né della loro vita, né del loro corpo.

Giulia Tofana, in questo scenario, si erge come una figura tragica e salvifica. Un impasto di bellezza prorompente, astuzia, crudeltà e totale assenza di scrupoli , si dice che, inizialmente, fosse una preparatrice di cosmetici e farmacista, ma la sua vera notorietà è legata a un rimedio che divenne il suo marchio di fabbrica: l’acqua di Tofana. Si trattava di una pozione che, se somministrata in piccole dosi, provocava la morte in modo lento e apparentemente naturale, senza destare sospetti. Una via di fuga per le donne che non avevano altre opzioni, che vivevano in una condizione di costante paura e subivano abusi da parte dei mariti.


La ricetta non è nota con precisione: alcune fonti parlano di un misto di anidride arseniosa, limatura di piombo e antimonio (o belladonna) messo a bollire per circa un’ ora in una pignatta ben sigillata; dopo il raffreddamento, il liquido veniva travasato in piccole bottigliette. Non sono note le quantità degli ingredienti utilizzati ma l’efficacia del prodotto era garantita: incolore, insapore, privo di odore, erano sufficienti poche gocce negli alimenti e nelle bevande quotidiane per provocare una morte senza grosse sofferenze e senza sintomi che potessero essere ricondotti all’avvelenamento. Sembrava una banale sindrome influenzale che però uccideva in una decina di giorni, mantenendo roseo il colorito della persona defunta.
Pare che il prezzo di una bottiglietta da mezzo quarto fosse di cento doppie d’oro e fu così che Giulia divenne in poco tempo molto ricca.

Intorno al 1640 si trasferì nel continente perché, dopo la morte di un ricco mercante di Genova, tal Ippolito Larcari, iniziarono a circolare sospetti su un suo probabile coinvolgimento.

La morte di Lercari era stata subito attribuita ad un veleno poiché l’avvelenatore, Luciano Spadafora, aveva somministrato una dose ben superiore a quella prescritta, forse pensando di accelerare la fine del malcapitato, ma così facendo le tracce della sostanza velenosa divennero subito evidenti. Durante il processo a suo carico, emersero inevitabilmente i legami con la presunta “fattucchiera”, costringendola alla fuga. 
Da Palermo a Napoli a Roma, con la figlia (o sorella di latte) Girolama Spana, Giulia affiancò alla produzione dell’acqua tofana l’attività di sensale di matrimoni «e anche di fattucchiera in quanto s’intendeva di fisonomia», entrando ben presto negli ambienti “bene” della città eterna grazie alla sua avvenenza e spregiudicatezza. Imparò a leggere e scrivere e adottò uno stile di vita da dama di nobile rango. Tra i suoi amanti vi furono anche diversi esponenti dell’alto clero e uno in particolare, padre Girolamo di Sant’Agnese, diventò suo fidato collaboratore, preziosissimo poiché insospettabile e con molte amicizie utili tra gli speziali che riuscivano a procurare senza difficoltà, né troppe domande, l’arsenico e le materie prime necessarie alla produzione del veleno.
A Roma trovò un ambiente estremamente favorevole al suo commercio soprattutto tra le tante donne costrette a una vita d’inferno accanto a mariti violenti, spesso ubriachi o parecchio più vecchi di loro; molte la consultavano talvolta per abortire o per avere sostanze contraccettive e poi magari tornavano a casa con la magica fiaschetta.

Dopo circa una decina d’anni di attività, due incidenti posero fine alla carriera di Giulia. Una sua cliente, la contessa di Ceri, evidentemente troppo ansiosa di liberarsi del marito e ignorando le prescrizioni, gli aveva somministrato tutto il flacone in un’unica soluzione causandone naturalmente la morte istantanea, come era già avvenuto al genovese Lercari.
Alla denuncia dei parenti della vittima si aggiunse anche quella di un marito sopravvissuto ad un tentato avvelenamento e ben presto le autorità arrestarono la responsabile. Non bisogna dimenticare che in quel periodo il Tribunale dell’Inquisizione faceva la parte del leone nei processi a imputati/e in odore di stregoneria e sospettati/e di pratiche occulte e anche Giulia finì nella stanza delle torture dove confessò di aver venduto, nella sola Roma, dosi di veleno sufficienti a uccidere circa seicento uomini tra il 1633 e il 1651.

A questo punto però le versioni sulla sorte di Tofana sono discordi: la maggior parte di esse sostiene la tesi che Giulia fu impiccata in Campo de’ Fiori nel 1659, nello stesso luogo dove era stato mandato al rogo Giordano Bruno. La medesima sorte sarebbe toccata a Girolama e a numerose donne giudicate colpevoli di aver avvelenato i mariti.
Secondo un’altra tesi Giulia sarebbe riuscita a far perdere le sue tracce dopo essere stata processata e assolta grazie all’intervento autorevole del suo amante, padre Girolamo. La tesi difensiva era basata sull’assunto che il prodotto incriminato era efficace per la cura della pelle ed era stato messo in commercio con quello scopo; la produttrice non poteva essere responsabile di usi diversi e non opportuni dello stesso.


Giulia è passata alla storia quindi per la creazione di un veleno letale, , che divenne uno strumento di liberazione tragica per molte donne costrette a vivere sotto il giogo di matrimoni violenti e oppressivi. Questo veleno, prodotto con una grande astuzia, è uno degli aspetti più misteriosi e inquietanti della sua figura, che ha fatto di lei una leggenda oscura e un simbolo di resistenza silenziosa contro l'oppressione patriarcale.

 Somministrato in piccole dosi, l'arsenico agiva lentamente, inducendo sintomi che sembravano comuni malattie come vomito, diarrea e debolezza, rendendo difficile per i medici diagnosticare la causa della morte. In questo modo, la morte risultava apparentemente naturale, e la vittima poteva morire senza destare sospetti, proteggendo così la donna che lo somministrava dal rischio di essere accusata di omicidio.

Il veleno veniva confezionato in piccole bottiglie, e Giulia Tofana, che probabilmente lo preparava personalmente, lo distribuiva alle donne che si rivolgevano a lei. Le clienti di Giulia erano in gran parte donne che vivevano matrimoni brutali, spesso con mariti violenti o abusanti, e che vedevano in quella piccola bottiglia la loro unica via di fuga. L’acqua di Tofana, una soluzione alchemica che mescolava arsenico, belladonna e altre sostanze velenose, veniva venduta in modo discreto, spesso sotto forma di cosmetici o liquidi apparentemente innocui, come lozioni per la pelle o tonici per il viso.

Si racconta che Giulia non fosse la sola a produrre il veleno, ma che avesse una rete di collaboratori e clienti che lo distribuissero sotto copertura, a testimonianza della diffusione di questa "soluzione finale" tra le donne dell'epoca. In molti casi, le donne che usavano l’acqua di Tofana lo facevano con l’accordo che le sue dosi fossero somministrate lentamente, in modo da non destare sospetti. La morte dei mariti avveniva quindi senza segni evidenti di violenza, e le cause naturali come le malattie venivano frequentemente citate come motivazioni.

La pozione non era destinata solo a uccidere, ma era vista anche come un atto di autodifesa. Un atto estremo di liberazione per quelle donne che, vittime di abusi psicologici, fisici ed economici, non avevano altro modo per sottrarsi alla tirannia dei loro mariti. Per queste donne, l’acqua di Tofana non era solo un veleno, ma una risposta disperata a una condizione di vita che non offriva altra via di scampo.

Il veleno divenne celebre, ma anche pericoloso. Le autorità si accorsero presto della sua diffusione e iniziarono a investigare su queste misteriose morti di uomini sposati, che sembravano accadere senza spiegazioni apparenti. Nel 1659, la rete di distribuzione del veleno fu smascherata, e Giulia Tofana, arrestata e sottoposta a tortura, confessò la sua responsabilità nella creazione e diffusione dell’acqua di Tofana. Nonostante le torture, Giulia non tradì mai le altre donne coinvolte nel traffico del veleno. Fu giustiziata, ma la leggenda che circonda la sua figura rimase viva anche dopo la sua morte.

Gli storici non sono concordi sul numero preciso di vittime causate dall'acqua di Tofana, ma si stima che centinaia di donne abbiano fatto uso di questa pozione letale. In alcune versioni della storia, si dice che Giulia abbia creato il veleno come una sorta di “mestiere” per sé stessa, ma non mancano anche interpretazioni che la vedono come un' eroina, che offriva alle donne un’ultima opportunità di sopravvivenza in un mondo che non aveva misericordia per loro.

Oggi, l’acqua di Tofana non è solo un simbolo di disperazione, ma anche una testimonianza storica di come la conoscenza, la creatività e la sopravvivenza possano intersecarsi in modi oscuri e tragici. Il veleno non è mai stato visto come una "soluzione giusta", ma come l'ultimo atto di una donna che, pur di non soccombere, ha scelto la via più oscura di tutte. Con Giulia Tofana, la storia ci parla di un'umanità costretta a confrontarsi con le proprie leggi e la propria brutalità, e di come, a volte, il desiderio di libertà possa assumere forme tragiche e complesse.


La creazione di quest'arma micidiale non fu un atto di vendetta, ma di disperazione, una risposta al dolore e alla sofferenza di tante donne che, per troppo tempo, erano state ignorate e abusate. Giulia Tofana non fece altro che offrire loro una speranza, seppur estrema e drammatica, di salvezza. Il veleno non era solo una soluzione fisica, ma un atto simbolico: un atto di resistenza contro un sistema che aveva imposto la morte sociale a tutte quelle donne che, come tante altre prima di loro, avevano cercato di affermare la propria umanità.

Ciò che Giulia Tofana rappresenta non è solo l’ingegno di una donna che ha saputo sfruttare le conoscenze alchemiche del suo tempo per creare qualcosa di fatale, ma soprattutto la sua capacità di leggere la sofferenza di chi le stava intorno e di rispondere con una possibilità, anche se tragica, di liberazione. La sua pozione non offriva giustizia, non restituiva dignità, ma faceva in modo che almeno le donne potessero sentirsi, per un attimo, padroni del proprio destino.

Le donne che si rivolgevano a Giulia non lo facevano per crudeltà, ma per un disperato bisogno di sopravvivenza. Non avevano alternative, non c’erano istituzioni che le proteggessero, non c’erano leggi che difendessero i loro diritti. La scelta di Giulia, dunque, non fu una questione morale, ma una risposta a una condizione disumana. Eppure, nonostante la sua azione sia stata vista come un gesto di ribellione, la condanna che colpì Giulia fu severissima: alla fine della sua carriera, nel 1659, la sua rete di complicità venne scoperta, e Giulia Tofana fu arrestata, torturata e giustiziata.

La sua morte, però, non cancellò l'importanza della sua esistenza, né l'impatto che ebbe sulla vita di quelle donne che riuscirono, seppur per poco, a evadere dalle catene invisibili di una società patriarcale. La leggenda di Giulia Tofana è un monito e un racconto che parla di disperazione, ma anche di forza e di resistenza. In un’epoca di buio totale, Giulia rappresentò una luce, anche se in forma di veleno.

Oggi, riflettendo sulla sua figura, possiamo comprendere quanto le condizioni di vita delle donne nel XVII secolo fossero spietate. La sua storia ci fa interrogare sul prezzo che la società ha imposto, e ancora impone, alle donne che tentano di alzare la voce, che chiedono un cambiamento, che chiedono di poter vivere una vita dignitosa. La sua vicenda ci invita a ricordare che la lotta per i diritti delle donne è lunga, e che ogni piccolo gesto di resistenza, anche quando sembra estrema e disperata, è una forma di resistenza. Giulia Tofana ci insegna che la libertà, spesso, si paga a caro prezzo.

La produzione dell’acqua tofana non cessò dopo la morte di colei che la rese famosa e il suo uso è stato attribuito, tra le altre, alla marchesa de Brinvilliers, nobildonna francese che tra il 1666 e il 1676 ne sperimentò l’efficacia uccidendo numerose persone tra cui il padre e due suoi fratelli mentre, di lì a poco, sarebbe scoppiato nella Francia di Re Sole il cosiddetto affare dei veleni, la cui protagonista principale fu “La Voisin”.


ROSSELLA : LA TEMPESTA E L'USIGNOLO, il gioco infinito




 Un enigma vestito di sorrisi e silenzi, un'epifania di leggerezza e tenacia che si nasconde dietro l’ombra di una civetteria intrigante, ma anche profondamente riflessiva. La sua bellezza non è fatta di tratti perfetti o di uno charme costruito a tavolino; la sua è una bellezza che sfida le convenzioni, che affonda le radici in una sensualità mai dichiarata, ma sempre evidente, un’arte sottile nel gioco di sguardi e parole che si intrecciano con una disinvoltura quasi animalesca. Una civetta che sa quando farsi ammirare e quando svanire nel buio, sempre con la stessa astuzia, ma mai con l’intento di ingannare. La sua civetteria non è un trucco per attirare attenzione: è un mistero che invita chiunque si avvicini a scoprire di più, sapendo che, una volta attratti, si rischia di non riuscire mai a staccarsi dal suo magnetismo.

Non è facile etichettarla. La sua figura psicologica è come un cielo tempestoso che cela al contempo il sole e il temporale. Con lei, le parole scorrono leggere come una carezza, ma sotto quelle parole si nascondono pensieri taglienti, affilati, pronti a tagliare i legami della superficialità. Eppure, se da un lato sa giocare con le percezioni altrui, costruendo attorno a sé un’aura di mistero che oscilla tra il seducente e l' irraggiungibile, dall’altro è consapevole che, per quanto il gioco possa durare, la verità non si nasconde a lungo, nemmeno dietro un sorriso enigmatico.

La sua civetteria non è mai solo un'apparenza, ma una forma di comunicazione tacita, come se avesse scelto di parlare con il corpo e con lo sguardo piuttosto che con le parole, consapevole che, per dirle, le parole troppo spesso svelano ciò che preferirebbe rimanesse celato. È una civetteria fatta di piccole sfumature, di sguardi sospesi, di battiti di ciglia che potrebbero essere scambiati per distrazione, ma che in realtà sono inviti a capire, a decifrare, a intraprendere una danza fatta di reciproca seduzione. Ogni sua risata è un colpo di vento che solleva polvere e segreti, rivelando appena un angolo di quella che potrebbe essere la sua anima — ma solo un angolo, perché, come ogni civetta, Rossella sa perfettamente come rimanere elusiva.

Eppure, sotto questa maschera affascinante e giocosa, c’è una forza d'animo che non si vede subito. Non è la tipica "forza" che esplode in gesti clamorosi o in dichiarazioni di guerra. No, la sua forza è quella sottile ma implacabile di chi ha visto abbastanza del mondo da non piegarsi ai suoi capricci, ma di adattarsi a essi con una grazia che quasi non si avverte. Non è mai sopraffatta dal peso della vita, anche quando la vita sembra volerla schiacciare. La sua determinazione è la quiete che precede una tempesta, il silenzio di chi sa che ogni battaglia si vince senza fare rumore. Rossella non cede mai alla tentazione di soccombere, non perché non conosca la fragilità, ma perché ha imparato a convivere con essa, a usarla come una risorsa. La sua resilienza non è mai ostentata, è solo una condizione naturale, come il vento che spinge le onde senza mai fermarsi.

Rossella sa che la civetteria è solo un gioco, e che ogni gioco ha il suo prezzo. Sotto il suo sorriso che sfida il mondo c'è una consapevolezza che pochi colgono: che la forza non è solo nella capacità di opporsi agli altri, ma nella saggezza di sapere quando non fare nulla, quando lasciarsi andare alla corrente senza opporre resistenza. La sua bellezza, dunque, non è solo apparenza, ma una forma di intelligenza emotiva che si nasconde dietro ogni gesto, ogni parola, ogni sguardo.

La civetteria di Rossella è, in definitiva, una strategia di sopravvivenza, una maschera che però non cela nulla, ma che rivela molto di più di quanto possa sembrare. Non è frivola, non è frivola affatto. È il riflesso di una persona che ha scelto di non farsi ingabbiare, di non farsi possedere né dalle sue debolezze né dai suoi punti di forza. È una danza di luci e ombre, in cui il suo vero carattere emerge solo a chi sa saperlo cercare con pazienza, ma che, una volta scovato, non delude mai: un cuore forte, indomito, che batte con la stessa intensità di una tempesta che non si è mai fermata, e che non ha intenzione di farlo.

ANNA : LA FIAMMA E L'OMBRA






"Non mi sono mai sentita tanto al centro del mondo come quando i suoi occhi, pieni di potere e desiderio, hanno incontrato i miei. Non un uomo qualsiasi, ma lui, Enrico, il re d'Inghilterra, il sovrano che tutto ha e tutto può. Io, una giovane donna di campagna, da poco arrivata alla corte, mi sentivo invisibile, persa tra mille volti, mille storie. Eppure, in quell’istante, ho sentito come se la mia esistenza si fosse fatta improvvisamente palpabile. Lui mi guardava come se vedesse in me qualcosa che nemmeno io conoscevo. Non solo bellezza, ma qualcosa di più profondo, una scintilla che avrebbe potuto incendiare l'intero regno.

Non posso dire che fosse amore, almeno non come lo immaginavo. Ma c'era in lui qualcosa che mi ha incuriosita, affascinata e spaventata al tempo stesso. Era il re, eppure mi ha parlato come se fossi sua pari, come se il mio cuore fosse qualcosa che lui desiderasse possedere. Ma io non sono facile da conquistare. Non lo sarò mai. So che per una donna come me, il cuore non è mai libero, ma deve essere merce da scambiare, da vendere. Eppure… già un brivido mi percorreva la schiena. Non ero mai stata così vicina alla fiamma del potere. Non mi sembrava un pericolo, ma una possibilità. E mi chiedevo se ero pronta a coglierla."



"Ogni sua parola, ogni gesto, mi avvolgevano come una morsa che stringe senza lasciare fiato. Mi parlava di matrimonio, di un futuro che non avevo mai immaginato. Eppure, dovevo resistere, non potevo abbassarmi così facilmente. Non ero solo un’anima che sognava un amore eterno, ma una donna che sapeva perfettamente che ogni passo verso di lui avrebbe significato un passo verso il potere. Non ero una pedina da muovere, ero una regina nascosta sotto una veste di silenzio. E allora, lo respinsi. Non per mancanza di sentimento, ma perché sapevo che la mia anima non poteva essere posseduta senza che ne venisse estratto ogni più piccolo respiro di vita.

Ma ogni resistenza sembrava alimentare il suo desiderio. Più mi allontanavo, più lui sembrava avvicinarsi. La sua passione mi bruciava come un fuoco che cercava di divorarmi, eppure non potevo arrendermi. Non ero pronta a diventare il suo trofeo, un altro di quei nomi che si aggiungono alla lunga lista delle sue conquiste. Mi chiedevo se avessi dovuto cedere. Ma sarebbe stato un tradimento verso la mia essenza più profonda, quella che ancora sperava in qualcosa di vero, di puro. Però… la verità è che la mia mente era già imprigionata in lui, e il mio cuore cominciava a cedere, lentamente."



"Quando alla fine ho indossato la corona, il mondo non ha mai smesso di scrutarmi. Mi guardavano con occhi pieni di invidia, di disprezzo, ma anche di paura. Non ero la regina che avevano previsto. Non ero la regina che avevano immaginato. Non ero una dama timida e remissiva, ma una donna che, nonostante tutto, aveva imparato a muoversi tra le ombre, a leggere tra le righe dei sussurri. Eppure, la corona che brillava sulla mia testa non mi dava la pace che credevo di meritare. Ogni gesto del re sembrava più distante, ogni sguardo che mi lanciava più freddo, come se fossi già diventata una leggenda da dimenticare, una donna da lasciarsi alle spalle.

Volevo amarlo, certo. Ma il suo amore non era come quello che avevo sognato. Era un amore che bruciava, che consumava, che non lasciava scampo. E nel mio cuore, il desiderio di potere cresceva sempre più, come un seme che si fa albero. Io volevo essere regina, ma non mi rendevo conto che, mentre cercavo di afferrare la corona, stavo perdendo anche me stessa. Ogni giorno che passava, mi sentivo più vuota. Più sola."



"Elisabetta. Una bambina che mi ha donato la gioia più pura, ma che, al contempo, ha segnato l’inizio della mia rovina. Non è un maschio. E nel suo pianto, io sento il suono di mille cuori che mi condannano. Il mio regno non avrà erede, il mio sogno di una dinastia che porti il mio nome è spezzato, come una promessa mai mantenuta. Non posso guardarla senza sentire un dolore insostenibile, perché so che, nonostante l’amore che provo per lei, il suo arrivo non farà altro che spingermi più in fondo nell’abisso.

Ma che altro posso fare? Non posso cambiarlo. Non posso cambiare il corso degli eventi. Mi guardo allo specchio e vedo una donna che ha sacrificato troppo per raggiungere qualcosa che, alla fine, non ha mai avuto. La corona è una prigione, il trono una gabbia. Non sono più la donna che credeva nel proprio sogno, ma una regina che sta lentamente cadendo, trascinata dal fango che la corte ha sparso intorno a me."



"Tradimento. Incesto. Stregoneria. Ogni parola mi ferisce come una lama. Non sono mai stata tanto sola come in questo momento. Eppure, qualcosa dentro di me si ribella. Io non sono una di quelle donne che si arrendono facilmente. Ma che posso fare, quando il destino ha già deciso? Ogni passo che faccio mi avvicina al burrone, ma non posso più fermarmi. L'ombra della morte è ormai così vicina che mi sembra di respirarla. E il re, il mio re, colui che un tempo mi amava, ora mi guarda con occhi vuoti, come se fossi un errore da cancellare. Il potere che ho cercato, ora si rivela una maledizione.

Nessuna difesa, nessuna voce che mi sostenga. I miei amici, i miei alleati, tutti caduti uno a uno. Sono stata tradita, non solo da Enrico, ma da ogni uomo che ha giocato con la mia vita come se fosse una pedina. Eppure, non mi arrendo. Non voglio morire come una vittima. Se questo è il mio destino, lo accetto. Ma sappiate che, in ogni mio respiro, ci sarà sempre un ultimo atto di sfida."



"Guardando il cielo, vedo una luna pallida, fredda. Come me. La mia vita è stata una lunga attesa, un continuo cercare di afferrare qualcosa che mi sfuggiva sempre. La mia bellezza, il mio spirito, il mio amore per Enrico… tutto è stato un fuoco che, invece di scaldarmi, mi ha bruciata. Ma non c'è rimpianto. Non c'è più spazio per il rimorso. Domani sarò nulla. Una traccia che svanirà nella polvere. Ma nella mia mente, nel mio cuore, Elisabetta vivrà. La sua luce splenderà dove la mia non ha potuto arrivare. Se non posso essere regina, allora che sia lei a regnare. Perché in lei c’è tutto ciò che io avrei voluto essere, e forse di più."