L'inverno era entrato nelle ossa prima ancora di raggiungere la casa. Ricordo quel pomeriggio come una cartolina in bianco e nero, dove i contorni sfumavano nell'indefinito grigio del freddo.
Mio nonno sedeva accanto al camino, più immobile di una statua. Non c'era calore nelle fiamme, solo un tentativo disperato di trattenere un po' di vita. Le sue mani, grandi e screpolate, sembravano essere diventate parte del legno della poltrona - ruvide, resistenti, quasi fossero radicate là da sempre.
Fuori, la neve cancellava ogni confine. Alberi spogli, campi deserti, un orizzonte che si perdeva in una trama uniforme di bianco e cenere. Il silenzio era così denso che si poteva quasi toccare, un silenzio che raccontava storie di solitudini antiche, di inverni che divorano gli anni.
Non servivano parole tra noi. Il freddo aveva già detto tutto. Ogni respiro era un piccolo segno di resistenza, ogni movimento un atto di sfida contro l'immobilità che il gelo suggerirebbe.
Ricordo il suono dei suoi respiri, quel ritmo lento e stanco che sembrava negoziare con il tempo. Non c'era malinconia in quello sguardo, solo una consapevolezza profonda: essere parte di un paesaggio che ti assorbe, che ti modella, che ti racconta.
La stufa grugniva ogni tanto, come un animale ferito. Un ultimo tentativo di richiamare un calore ormai perduto. E noi là, suoi e miei, parte di quel quadro immobile, testimoni silenziosi di un inverno che non finiva mai.
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