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mercoledì 2 luglio 2025

IL GIORNO IN CUI NON HO AVUTO FRETTA

 

Non era un giorno importante.
Niente da festeggiare, niente di nuovo.
Era uno di quei giorni anonimi, spogli, dove la vita sembra andare avanti per inerzia.
Martedì, o forse giovedì.
Il tipo di giorno che, di solito, si dimentica in fretta.

Mi sono svegliata presto, con il corpo stanco e la mente ancora  affaticata.
Fuori, un cielo bianco e opaco che non prometteva né pioggia né sole.
Dentro casa, silenzio. Nessuna urgenza che bussasse alla porta. Solo quella sensazione vaga, sospesa, di essere nel mezzo di qualcosa che non so spiegare.

E per una volta, non ho avuto fretta.
Non ho controllato il telefono.
Non ho pensato a cosa “dovevo” fare.
Ho messo su la moka, lentamente, come se ogni gesto avesse un peso nuovo.

Mi sono seduta in cucina, con la tazza calda tra le mani.
E lì, in quell’angolo semplice della mia casa, è successo qualcosa.
Non un’illuminazione.
Niente di mistico o spettacolare.
Solo… un silenzio pieno. Un tempo diverso.

Il vapore saliva piano, disegnando linee nell’aria.
Il profumo del caffè si mescolava con la luce del mattino che entrava morbida dalla finestra.
Il cucchiaino nella tazza faceva un suono rotondo, ritmico.
E io ero lì. Davvero lì.
Non proiettata altrove, non persa nei pensieri.
Presente. Intera.

In quel momento, non mancava niente.
C’era solo ciò che c’era — e andava bene così.
La tazza calda, il respiro lento, la schiena appoggiata alla sedia, il cuore tranquillo.
Non perché tutto l'universo fosse risolto, ma perché finalmente non stavo pensando ad altro.

Era un istante piccolissimo, ma completo.
Uno di quelli che passano inosservati, se non stai attenta.
E invece io lo vedevo. Lo sentivo.
Come si sente qualcosa che ha peso, anche se è leggero.

Non è durato a lungo.
Pochi minuti, forse.
Poi è ripreso tutto: le notifiche, la lista delle cose da fare, la giornata che ricomincia a spingere.

Ma io ero diversa.
Perché avevo toccato quel punto fermo.
Quel posto silenzioso dove la felicità non ha bisogno di dirsi, ma si riconosce.
Non era gioia.
Era lucidità. Presenza.
Un attimo qualunque che, per qualche ragione, conteneva tutto.

Da allora, non lo inseguo.
Non lo pretendo.
Ma so vederlo, quando torna.
E ogni volta, senza clamore, mi ricorda che a volte basta poco per sentirsi esattamente dove si deve essere.





La legge dice.........

 La legge dice : metti la rete perchè il cane non deve distrarre il guidatore e non deve catapultarsi verso i sedili anteriori.



E' UN' ORA CHE RIDO😂😂😂

lunedì 30 giugno 2025

Io non sono cambiata. Sono nata così. E forse anche tu.

 Non ho avuto un “risveglio”, una crisi, una svolta.

Non c’è stato un momento preciso in cui ho capito che il mondo era più magico di quanto sembrasse.
Perché io lo sapevo già.

Sono nata sognatrice.
Con gli occhi grandi, pieni di cielo, e il cuore che batteva già per gli altri prima ancora di sapere parlare.
Amavo gli animali come fossero fratelli.
Mi commuoveva la gentilezza.
Vedevo storie ovunque: tra le pieghe di una giornata grigia, nel silenzio di una carezza, in uno sguardo che nessuno notava.

E sapete una cosa? Non ho mai smesso.

Mi hanno detto:
"Vedrai, crescendo cambierai.”
“Imparerai a proteggerti.”
“Diventerai più concreta.”

Non è successo.
Non perché io sia speciale, ma perché non ho mai voluto smettere di sentire.
Anche se era scomodo. Anche se faceva male.
Anche se vivere con il cuore aperto significa, a volte, soffrire più degli altri.

Ma significa anche vedere di più.
E quello che vedo, ogni giorno, è un mondo ancora pieno di miracoli piccoli e silenziosi.

 Un cane abbandonato che continua ad amare.
Un bambino che ride da solo con un piccione.
Una persona che ti tiene la porta anche se è in ritardo.
Una signora che nutre i gatti del quartiere come se fossero suoi.

Questi sono gli attimi che mi salvano.
Queste sono le storie che voglio raccontare.
Perché sono reali. Perché succedono ogni giorno.
E perché troppo spesso passano inosservate.

Ma non è solo una questione di “vedere”.
È una scelta.

Scegliere di non voltarsi dall’altra parte.
Scegliere di aprire il cuore, anche quando fa male.
Scegliere di credere che l’amore per il prossimo e per gli animali non sia solo un sentimento, ma un modo di essere.

E questa scelta, per quanto piccola, ha un potere immenso.

Perché quando ti fermi a guardare davvero, a sentire davvero, il mondo cambia.
Non magicamente, non senza fatica. Ma cambia, pezzo dopo pezzo, dentro e fuori di te.

La meraviglia non è una favola per bambini.
È un atto di coraggio.
Una ribellione silenziosa contro un mondo che preferisce distrarti, anestetizzarti, farti sentire piccolo.

Quel coraggio esiste.
Dentro ogni istante in cui si sceglie di vedere con gli occhi del cuore.

Se ti senti stanco della routine, se senti che manca qualcosa, non cercare altrove.
Guarda intorno, guarda dentro.
Riscopri la magia che c’è, spesso nascosta, sotto la superficie.

Non devi cambiare per tornare a vivere.
Devi solo ricordarti chi sei stato, prima che ti convincessero a smettere di sognare.

Io sono nata così. E tu?

Il mondo è più magico di quanto crediamo.
E quel mondo comincia dentro di noi.




domenica 15 giugno 2025

La geniallità

 Quando Voltaire fu in punto di morte, venne chiamato un prete, che lo esortò a maledire il demonio. “Le sembra questo il momento adatto per farsi altri nemici?” -rispose.


Ah, che lezione! In quell’istante finale, dove il corpo cede e le illusioni svaniscono, Voltaire non cerca salvezza, ma coerenza. Non si inginocchia — rilancia. Mentre il mondo si affanna a separare santi e dannati, lui si sottrae con eleganza al teatrino celeste. Nemmeno all’ultimo secondo si lascia arruolare in una guerra metafisica che non ha mai riconosciuto come sua.

Ironia? Certamente. Ma anche strategia esistenziale.
Perché se c’è una morale, è questa:
Quando sei prossimo al nulla, non ha senso farsi nuovi problemi. Né amici da compiacere, né nemici da maledire. Il diavolo? Figurarsi. Potrebbe pure essere il vicino di bara, meglio non litigarci subito.

E in fondo, Voltaire ci insegna che l’umorismo — quello vero, quello che ti accompagna anche al limite del precipizio — è la più alta forma di libertà.
La morte, come Dio e il Diavolo, può anche bussare alla porta. Ma se rispondi con una battuta, forse, per un istante, sei tu che comandi la scena.





martedì 27 maggio 2025

La stanza che ho scelto

 



A te, che hai scelto il silenzio anziché lo sforzo di farti capire.
Che hai preferito la calma alla vertigine, la solitudine alla confusione, la chiarezza alla speranza mal riposta.

Non è stata una chiusura.
È stata una direzione.

Hai imparato che l’amore — quello che valga la pena — non può essere un continuo tradursi, spiegarsi, correggersi.
E che il cuore non è una cosa da concedere ogni volta che qualcuno lo chiede con gentilezza apparente.

Così, hai smesso.
Non per cinismo, ma per rispetto.
Hai deciso che in questo tempo della vita, non amare è un modo per non dimenticarti di te.

C’è forza, in chi sa stare sola.
In chi non si scusa per il proprio silenzio, e non teme le sere senza voce al telefono.


Non chiudi, ma non insegui.
Nel frattempo, coltivi la tua pace.

Fai ordine nei pensieri.
Ti ascolti senza giudicarti.
E in tutto questo c’è  bellezza .
Tua. Intatta. Indiscutibile.

 non ti chiami fuori dalla vita, ma solo da ciò che non le assomiglia:
che il tuo spazio resti sacro.
E il tuo silenzio, una forma di musica.

Non ho più voglia di dovermi tradurre in un linguaggio che non mi somiglia.
Di diventare leggibile per chi non sa leggere, di farmi piccola per entrare nel riquadro di qualcun altro.

Non c’è rancore in questa distanza.
Solo quiete.
Una specie di spazio pulito, dove finalmente respiro.


Ho imparato che non tutto quello che scalda è casa, che non tutto quello che vibra è vero.
Che a volte, stare bene con sé stessi non è un attimo tra due relazioni, ma un luogo dove si resta — perché ci si sta bene.

Non mi mancano i messaggi, le attenzioni, le mani intrecciate per strada.
Mi manca, a volte, una conversazione vera.
Ma non abbastanza da tornare a cercarla dove non c’è.

Questa assenza non mi pesa. Mi definisce.
È uno spazio che ho costruito io, con pazienza.
Non c’è rumore, non c’è attesa.
E, per la prima volta, non c’è sforzo.

Se l’amore tornerà, che arrivi come un’eco che non disturba.
Che non chieda permesso, ma che sappia dove sedersi.
Che non abbia fretta.

Nel frattempo, io resto qui.
Intera.




I luoghi che ci salvano

 Non sempre i luoghi che ci salvano sono quelli in cui ci sentiamo felici.

Spesso sono luoghi silenziosi, umili, in cui semplicemente ci siamo permessi di esistere senza dover spiegare nulla. Senza la necessità di sorridere, di parlare, di tenere tutto insieme.

A volte è una stanza. Una piccola cucina con la finestra aperta e il rumore del traffico in sottofondo.
A volte è un tratto di marciapiede, sempre lo stesso, percorso mille volte nei giorni in cui il cuore era troppo pesante per restare in casa.
Altre volte ancora è un luogo che non esiste più — una città lasciata, un volto sfocato nella memoria, un tempo che non ritorna — ma che continua a salvarci, ogni volta che ci pensiamo.

Ho avuto anch’io i miei rifugi.
Un piccolo ponte in una città, dove tornavo ogni sera per guardare l’acqua nera scorrere.
Un bosco nei dintorni di una casa, dove il silenzio sembrava capirmi meglio di qualsiasi voce.
Un libro, letto mille volte, come un amico discreto che non fa domande.
Una canzone che, ogni volta che la ascolto, mi ricorda che ho già attraversato il buio. E sono ancora qui.

I luoghi che ci salvano non fanno rumore.
Non chiedono nulla.
Non si offendono se li dimentichiamo per anni.



Eppure, restano. Ci aspettano.
E quando ne abbiamo bisogno, ci tornano in mente come un respiro più largo, come una carezza silenziosa nel caos.

Ognuno ha il proprio atlante della salvezza.
Non è fatto di confini geografici, ma di dettagli: una luce, un odore, un istante.
E custodirlo — anche solo ricordarlo — è un modo per non perdersi del tutto.







Il silenzio che ci resta

 Non so più come si parla del dolore, quando è così grande.

Non so più se bastano le parole, o se le parole servano ancora.
In questi giorni ho guardato immagini che non avrei voluto vedere. Ho letto notizie che mi hanno lasciato vuoto, con una stretta nello stomaco che non se ne va.
E mentre la vita intorno continua — come deve, come sempre — dentro di me si è aperta una domanda:
Che cosa resta della nostra umanità, quando smettiamo di sentire?

Ci sono momenti in cui la parola “tragedia” non basta più.
Non descrive, non consola, non scuote. Semplicemente si svuota, diventa suono, retorica, abitudine.
E allora cosa resta?

A Gaza, sotto le macerie, restano corpi.
Corpi di bambini, di madri, di anziani. Civili.
Non soldati. Non miliziani.
Persone.

Persone come noi, solo nate dalla parte sbagliata del muro.
Persone che volevano vivere, non sopravvivere.
Persone che avevano una casa, un nome, un futuro.
Ora non hanno più nulla.

Non si può spiegare la morte di un bambino. Non si può giustificare un missile su un ospedale. Non si può accettare l’idea che il dolore di alcuni valga meno di quello di altri.
Eppure succede. Ogni giorno.

E noi?

Siamo qui, altrove.
Forse impotenti, forse stanchi, forse semplicemente sopraffatti. Ma presenti. Connessi. Informati.
Sappiamo.
E sapere comporta una responsabilità.

Il silenzio è comprensibile. È umano.
Ma non può diventare indifferenza.
Non ora. Non davanti a questa sofferenza così vasta, così ripetuta, così sistematica.

Quello che accade a Gaza non è solo una questione politica, né una semplice pagina di cronaca.
È una ferita nella carne viva dell’umanità.
È la nostra incapacità di proteggere i più fragili, ancora una volta.
È l’eco di tante altre tragedie taciute, dimenticate, archiviate.

Eppure, qualcosa possiamo fare.
Possiamo restare umani.
Possiamo restare presenti.
Possiamo non smettere di guardare in faccia il dolore, anche se fa male.
Possiamo dire: “Non in mio nome.”
Possiamo donare, scrivere, condividere. Ma soprattutto, possiamo non voltare le spalle.

Non servirà a fermare le bombe.
Ma servirà a salvare anche qualcosa di noi.




Quando morirò, ...

 "Quando morirò, non potrò certo lamentarmi di aver vissuto solo una vita. Ne ho vissute almeno quattro."

Non è un’esagerazione, né un’illusione romantica. È solo la verità di chi ha abitato se stesso con fedeltà, ma ha cambiato pelle più volte, come fanno i serpenti antichi quando sentono che la pelle vecchia non contiene più il respiro.

Ogni vita che ho vissuto è rimasta, non è mai stata abbandonata. I luoghi di un tempo sono ancora lì, e io li ho tenuti stretti. Non li ho sigillati con malinconia, ma li ho trasformati in stanze aperte, visibili solo a chi sa vedere con il cuore. Ho costruito una piccola via nel mezzo del bosco della mia esistenza, una strada nascosta tra i rami e le radici, fatta di passi, errori, intuizioni e ritorni. Una strada che non va solo avanti, ma che conserva le orme del mio passaggio, come una mappa segreta che mi consente di tornare indietro senza perdere me stesso.

Ho lasciato tracce, ma non per vanità. Le ho lasciate come si lasciano briciole di pane nella fiaba, non per fuggire, ma per ritrovare la strada del cuore nei giorni in cui la nebbia copre ogni direzione. Ogni vita che ho vissuto ha avuto il suo ritmo, il suo sapore, i suoi fuochi e i suoi silenzi. C’è stata la vita del sogno, quella dell’urgenza, quella della perdita e poi quella della rinascita lenta, come l’erba che spunta dopo l’inverno.

Non ho mai chiuso le porte dietro di me. Le ho lasciate socchiuse. Perché ogni tanto, nel silenzio, mi capita di tornare a camminare in quei luoghi, nei momenti in cui il presente si fa sottile e sento il bisogno di ricordarmi chi sono stata , per capire meglio chi sto diventando.

                                                                                                                                                                                                                                              

E allora sì, quando morirò non sarà la fine di una vita, ma il compimento di un viaggio fatto di molte esistenze, tutte intrecciate come radici sotto la terra. Non sarà un addio, ma una trasformazione. Perché ciò che ho lasciato nei sentieri percorsi – la vita, l’amore, le parole, i gesti – continuerà a vibrare nel bosco della memoria.

E qualcuno, forse, troverà quelle tracce. E capirà che si può vivere più di una vita, restando fedeli a una sola anima.





giovedì 24 aprile 2025

Una luce che non chiede il permesso

 

Non perché sia perfetta. Non perché io abbia tutte le risposte.
Anzi, la mia fede è spesso un inciampo, una domanda aperta, una lotta silenziosa. Ma è mia. E c’è.

E forse, proprio per questo, a volte la sento osservata con una strana miscela di curiosità, sospetto… e, sì, un filo di invidia.
Perché chi crede, davvero, anche quando vacilla, ha qualcosa che non si compra, non si simula, non si spiega: ha radici.

In un mondo dove tutto è liquido, chi ha fede sembra solido.
Non rigido, ma saldo.
Non arrogante, ma abitato da una Presenza.
E questo, a chi vive costantemente in superficie, può sembrare irritante.

La fede non è superiorità. Non è ricetta per la felicità.
Ma è una luce che, anche nel buio, sai dove cercare.
E sì, può far male a chi quella luce non riesce (o non vuole) più vederla.

Ma non è competizione.
La fede vera non divide, non si impone, non è trofeo.
È un dono. E come ogni dono, è libero.
Può essere accolto, può essere rifiutato… ma non può essere invidiato senza prima essere desiderato.

 Quindi se la mia fede suscita qualcosa in te, che sia domanda, rabbia o persino invidia — accoglila. È già un inizio. È già dialogo. È già sete.



Buon viaggio, Padre Francesco.

 Ti congedi, forse solo per un tratto, ma il tuo passo resta inciso nel solco del tempo.

Hai parlato con il Vangelo nelle mani e le scarpe impolverate,
hai stretto mani tremanti, guardato negli occhi i dimenticati,
e ci hai ricordato che la fede non è rifugio, ma incontro.

Ci lasci parole che non pesano come pietre,
ma come semi: attecchiranno nei cuori che hanno saputo ascoltare.

Hai portato sulla spalla le fragilità della Chiesa come un pastore porta la pecora ferita: senza clamore, con amore.
Non hai voluto essere icona, ma fratello. E proprio così sei diventato guida.

Ora vai, se è tempo di andare.
Che il vento dello Spirito ti accompagni,
che la Luce ti preceda,
e che la pace ti abiti,
come tu hai cercato di abitare il dolore del mondo con misericordia.

Con amore, nel silenzio e nella preghiera.
Buon viaggio, Papa Francesco.




da chi ha imparato qualcosa anche solo ascoltandoti in silenzio.