non è andato tutto bene ---un documentario di paolo cassina https://www.youtube.com/watch?v=pY7oNnJ2Vpg&ab_channel=PLAYMASTERMOVIE
IL CUORE NEL WEB
Benvenuti

lunedì 25 agosto 2025
sabato 9 agosto 2025
Non temiamo l’intelligenza artificiale. Temiamo l’uso disumano che ne può essere fatto.
Sono favorevole all’IA. Lo dico senza esitazione.
Perché credo che possa migliorare la medicina, amplificare la conoscenza, rendere accessibile l’educazione, prevenire disastri, semplificare la vita. Credo che l’IA possa fare per il nostro tempo ciò che l’elettricità ha fatto per il secolo scorso: cambiare tutto.Ma proprio per questo, non possiamo permetterci di essere ingenui.
L’intelligenza artificiale non è buona né cattiva. È potente. Ed è il potere, come sempre, che va interrogato.
Chi lo gestisce? Chi scrive i codici? Chi decide a cosa serve e a cosa no?
E, soprattutto: chi viene ascoltato quando si pongono queste domande?
Perché se lasciamo che l’IA venga usata solo da chi ha interessi economici o strategici, finiremo per delegare scelte cruciali a sistemi che non conosciamo, creati da mani che non possiamo eleggere o contestare.
Sostenere l’IA non significa dire “sì” a tutto. Significa dire sì a un’IA trasparente, inclusiva, tracciabile.
Un’IA che lavora per il bene collettivo, non per il controllo centralizzato.
Un’IA che potenzia l’umano, non che lo sostituisce nei suoi diritti fondamentali.
Chi ama davvero la tecnologia, non la idolatra. La governa. La umanizza.
E oggi, non servono solo ingegneri. Servono filosofi, eticisti, cittadini vigili. Serve un nuovo patto sociale in cui il progresso non sia una corsa cieca, ma una scelta consapevole.
“Il problema non è l’intelligenza delle macchine. È l’assenza di responsabilità negli umani che le guidano.”
Parlare di IA non è più parlare di “futuro”.
È già qui. Scrive, diagnostica, prevede, ottimizza, crea. In certi contesti lavora meglio di noi; in altri, ci affianca e ci spinge a pensare in modi nuovi.
E va bene così. Il progresso non è il nemico.
Il punto critico è un altro:
Stiamo crescendo noi come società, allo stesso ritmo con cui cresce la potenza degli strumenti che stiamo creando?
Perché non è l’IA a dover essere "umana".
Siamo noi a dover restare tali.
Serve un pensiero lungo, non solo tecnico ma etico e culturale, capace di porre limiti dove serve e di incoraggiare dove è giusto farlo.
Non possiamo permetterci di vedere l’intelligenza artificiale come una bacchetta magica. Ma nemmeno come uno spettro distopico.
È uno strumento di potere. E, come ogni potere, chiede visione, maturità, equilibrio.
Siamo disposti ad accettare che l’IA modifichi il lavoro, ma chi protegge chi viene lasciato indietro?
Siamo entusiasti delle IA generative, ma chi si assicura che non riproducano i pregiudizi di chi le ha addestrate?
Ci affascina la capacità di prevedere comportamenti, ma ci stiamo chiedendo quanto della nostra libertà siamo pronti a cedere in cambio di efficienza?
Non serve essere pessimisti per porre queste domande.
Serve solo avere a cuore la dignità umana.
In definitiva, l’IA può essere lo specchio più potente che l’umanità abbia mai costruito: riflette ciò che siamo, moltiplica ciò che facciamo, amplifica ciò che scegliamo.
Se guardiamo dentro quell’immagine con onestà, potremmo uscirne migliori. Ma solo se non smettiamo mai di chiederci: “a chi serve davvero questo progresso?”
L’IA è una rivoluzione. Ma perché sia anche un’evoluzione, dobbiamo crescere noi. Come persone. Come cittadini. Come umanità.
Quando la terra trema sotto i nostri piedi
Ogni mattina ci svegliamo e facciamo fatica a comprendere che per milioni di persone, in paesi lontani, il suolo sotto i loro piedi non è stabilità, ma instabilità. Il mondo sta affrontando uno dei momenti più bui della sua storia recente: conflitti che infuriano, aiuti che diminuiscono e una crisi climatica che non fa sconti.
Prendiamo ad esempio il Sudan. Oggi, metà della sua popolazione , circa 25 milioni di persone , è minacciata da una carestia estrema. Intere comunità sono private del cibo, dell’assistenza sanitaria, e vivono sotto l’assedio della guerra. Non è solo guerra: è una fame deliberata, una strategia usata come arma contro i più vulnerabili .
Oppure guardiamo a Gaza, dove la fame avanza e le narrazioni cominciano finalmente a cambiare, anche in Israele. Le immagini hanno forzato una riflessione collettiva: una crisi che da negata, sta diventando inevitabile da affrontare.
Ma c’è anche la Terra che soffre: Tuvalu, un piccolo stato insulare del Pacifico, sta compiendo la prima migrazione pianificata dell’intera popolazione a causa dell’innalzamento dei mari. Un gesto che dovrebbe scuoterci, perché è un campanello d’allarme per il pianeta intero.
Siamo davanti a tre storie diverse, ma unite dallo stesso filo sottile: la fragilità della nostra specie. La dignità della vita, la sacralità dell’abitare, la necessità dell’aiuto non sono optional: sono diritti universali. Quando lo Stato sociale trema e le risorse scarseggiano, emerge la domanda più urgente che possiamo porre a noi stessi: che mondo stiamo costruendo?
Tre esempi che tratteggiano un quadro doloroso, ma indispensabile da raccontare, perché il primo passo verso il cambiamento è vedere la realtà con cuore e con occhi aperti.
This country begins the world’s first planned migration of a ..
Mãe palestina Amira Muteir com bebê de 5 meses Ammar na Cidade de Gaza 5/8/2025 REUTERS/Mahmoud Issa Purchase Licensing Rights
“La spiaggia” di Lattuada : quando il mare rivela, più che nascondere
la spiaggia (1954) di Alberto Lattuada è un film di rara eleganza morale, che affronta con sguardo lucido e compassionevole l’ipocrisia borghese del dopoguerra.
Ci sono film che sembrano semplici, quasi leggeri… e poi ti restano dentro.
La spiaggia di Alberto Lattuada è uno di quei film silenziosi ma taglienti, che ti costringono a guardare ciò che preferiamo ignorare.
In una località balneare ligure, tra ombrelloni, villeggianti e convenzioni sociali, arriva una donna. È bella, elegante, educata.
Ma porta con sé un passato che, appena svelato, basta a farla diventare "l’altra", "l’indegna", "la colpevole".
È una prostituta.
Intorno a lei si muove una comunità “per bene”, che accoglie con sorrisi e allontana con disprezzo non appena la facciata cade.
La spiaggia diventa teatro di un processo morale sommerso, dove la condanna non arriva mai apertamente, ma goccia dopo goccia — negli sguardi, nei silenzi, nei giudizi che si fingono difesa della decenza.
La spiaggia è un film che denuncia senza urlare, che osserva senza giudicare, che mostra senza compiacersi.
Un'opera che parla di doppi standard, di ruoli imposti, di moralismo travestito da civiltà.
E lo fa con una grazia visiva e narrativa che oggi appare ancora più moderna di quanto fosse allora.
È uno specchio. Non del passato, ma del presente che non cambia. In La spiaggia, Alberto Lattuada compie un gesto radicale: prende la luce, i sorrisi e la superficie spensierata delle vacanze borghesi e vi spalanca dentro l’ombra più scomoda dell’Italia perbene.
Non c’è retorica, non c’è compiacimento. C’è invece un lento scivolare verso la consapevolezza che il vero scandalo non è la prostituta in villeggiatura, ma la società che la giudica mentre si nasconde.Non serve un tribunale: bastano gli sguardi. Bastano i sussurri. Bastano le madri che "pensano ai propri figli", i padri che "non vogliono problemi", le amicizie che si sciolgono con la stessa rapidità di un gelato al sole.
La protagonista ,interpretata con straordinaria sobrietà da Martine Carol , non è una donna fatale. Non seduce. Non chiede nulla. Ma il solo fatto che sia lì, tra “le persone perbene”, è visto come una provocazione.
Il suo corpo non è libero: è colpevole.
Lattuada, con tocco chirurgico, mostra la reazione isterica della società non alla minaccia reale, ma a quella simbolica. La donna è una figura disturbante perché interrompe il gioco delle maschere.
In lei, gli altri vedono riflessi i propri compromessi, i propri segreti. E per questo la rifiutano.
Raf Vallone interpreta Silvio, il sindaco: uomo progressista, empatico, persino affettuoso. Ma anche lui nonostante le buone intenzioni è prigioniero del proprio ruolo.
Silvio è l’uomo che tenta di difendere, ma senza esporsi davvero. Che prova pietà, ma non fino al sacrificio. Che vorrebbe proteggere, ma si arrende alla logica del gruppo.
Il suo personaggio è tra i più moderni del cinema italiano dell’epoca: un uomo che non è né carnefice né eroe, ma solo umano. E quindi, inevitabilmente, parte del problema.
Siamo nel 1954, ma La spiaggia anticipa molti temi che diventeranno centrali solo decenni dopo.
Lattuada osserva tutto con compassione e lucidità. Non trasforma la protagonista in una vittima sacrificale, né in una martire. La racconta semplicemente come essere umano. E proprio per questo il film è ancora così potente oggi.
Un film immortale, dimenticato troppo spesso: Uno sguardo dal ponte (1962)
Uno sguardo dal ponte (A View from the Bridge), film tratto dall’omonima opera teatrale di Arthur Miller.
Diretto da Sidney Lumet nella versione americana a teatro, ma portato sullo schermo da Sidney Lumet (1955) e poi da Sidney Lumet e Peter Brook . Il film è del 1962 con Raf Vallone, diretto da Sidney Lumet nella versione teatrale a Broadway eD è Sidney Lumet stesso a firmare la regia cinematografica francese/italiana.
Raf Vallone ne fu protagonista sia a teatro che al cinema , un ruolo simbolico della sua carriera.
Vallone è Eddie Carbone, un uomo lacerato tra amore, onore e gelosia. Immigrato italiano a New York, vive un dramma interiore che esplode nella tragedia.
Un personaggio profondamente umano, che Raf interpreta con potenza trattenuta e cruda sincerità.
C’è un cinema che non urla, ma scava. Che parla di ossessioni, silenzi, desideri repressi e confini (morali, culturali, emotivi).
Uno sguardo dal ponte è uno di quei film. Sullo sfondo: Brooklyn, l’immigrazione, la legge non scritta dell’onore, e la fragilità dell’identità maschile messa alla prova.
C’è una ferita che non si vede, ma che brucia. È quella che consuma Eddie Carbone.
Lacerato tra affetto e desiderio, Eddie ama la giovane nipote Catherine in un modo che non riesce a nominare. Non può, non deve. Ma il sentimento cresce, si contorce, si traveste da protezione, da gelosia, da giustizia.
E lo divora.
Eddie non è un mostro: è un uomo comune, colto in fallo da qualcosa che non sa gestire.
Il suo sguardo sulla nipote è quello di un adulto incapace di accettare il passaggio del tempo, il distacco, l'autonomia di chi cresce e l'attrazione di chi resta a guardare.
Intorno a lui, l'onore, le leggi non scritte della comunità italoamericana, la fatica dell’emigrazione, la mascolinità ferita.
Ma dentro, un dolore privato, segreto, che esplode in tragedia.
La sua attrazione non è mai mostrata in modo esplicito. È suggerita, repressa, dissimulata e proprio per questo ancora più drammatica.
Arthur Miller ci mette di fronte all’ambiguità, al rimosso, a ciò che la società preferisce non vedere. E Vallone regala a Eddie un volto umano, tremante ma potente e terribilmente reale.
Uno sguardo dal ponte non è solo un film. È uno specchio scomodo su ciò che non si può dire, ma che esiste.
giovedì 7 agosto 2025
Olandesina: l’arte sublime del far niente… con talento.
Una sirena della notte che non ha intenzione di spegnere le luci.
Nel grande circo del web, tra gente che cucina coi piedi e filosofi da Instagram, esiste una categoria superiore. Un’icona. Una figura che danza sulle regole del pudore e dell’algoritmo sessuale con la grazia di chi sa esattamente dove sta il limite… ma lo stira la sera in diretta.Una via di mezzo tra Baby Spice e una cheerleader in sciopero della vergogna.
Lei è Olandesina.
Una visione bionda e ipnotica, a metà tra una fata del metaverso e una diva da sala prove della Garbatella improvvisata, che si esibisce in streaming con quella miscela esplosiva di seduzione velata e candore da “io? Ma sto solo ascoltando musica…”.
Niente di volgare, intendiamoci: solo una costante e chirurgica esposizione calibrata al millimetro. Come se fosse tutto casuale, ma ripetuto con invidiabile precisione.
Olandesina è un capolavoro contemporaneo: zero contenuti, mille visualizzazioni.
Nessuna dichiarazione, ma ogni movimento è una tesi sull’arte dell’ambiguità sessuale gestita in chiave softcore con filtri da Instagram story.
Con quella leggerezza irritante di chi non ha mai letto un libro, ma ha capito tutto della comunicazione visiva.
E poi c’è lui.
Fox.
Il “manager”.
Una figura mitologica, metà moderatore, metà PR, metà talpone da discoteca del 1994, che presidia la chat come un vecchio usciere convinto di essere il direttore artistico del secolo.
È lui che enuncia perle del tipo:
“Restate connessi, tra poco si scalda l’atmosfera ”,
“Niente pressioni ragazzi, Olandesina decide lei se e quanto...”.
Lei è La Regina, sì.
Fox è il “manager” ufficiale, anche se in pratica è il portinaio digitale dello show. Modera la chat con l’energia di un PR alle prime armi, lancia promozioni tipo “stasera forse si balla con le calze a rete ”, e supervisiona tutto con la gravità di chi crede davvero di star dirigendo il Moulin Rouge, mentre gestisce una diretta da un salotto con luci LED.
Eppure, malgrado tutto, c'è qualcosa di quasi tenero nel suo show continuo. Un che di infantile travestito da maturo. Forse è l’unica vera forma d’arte rimasta: la provocazione svuotata di senso, ma piena di views.
Un teatro grottesco dove Olandesina è regista e protagonista,
Il suo pubblico? Un mix tragicomico di voyeurs in cerca di conforto e mariti smarriti nel mare del 5G.
Ma questo è il vero colpo di scena: funziona.
Perché in mezzo a un web pieno di gente che si prende terribilmente sul serio, lei non dice nulla, non spiega nulla, non pretende nulla.
Semplicemente, si mostra.
Sarà anche esibizionista, e chi lo nega? ma lo è con stile, con finta timidezza, con quella teatralità da attrice che recita la parte della ragazza inconsapevole… con la fotogenia perfetta, la luce giusta e un pubblico pronto a bersi tutto.
Malgrado tutto, le vogliamo bene.
Perché Olandesina, nel suo piccolo show in loop, è una certezza. Non cambia mai, non delude, non pretende nulla. CI RICORDA CHE L'UNIVERSO PUO' ANCHE NON CAMBIARE.
È lì per ricordarci che il mondo è pieno di cose inutili… e che molte di queste, se fatte bene, sono deliziose.
Quindi grazie, Olandesina. Continua a danzare per noi. A muoverti come se nulla fosse, a giocare al gioco dell’ingenuità armata, a intrattenerci con il tuo mistero biondo . Solo che lo show è un po’ fuori tempo massimo.C’è piuttosto quel territorio scomodo in cui la sensualità diventa un esercizio di ostinazione, una lotta disperata contro il tempo, il buonsenso.
E tu, spettatore, puoi indignarti, ridere, schifarti… o semplicemente restare lì, catturato come una falena davanti al neon.
Continua a danzare sul filo dell’equivoco, a sembrare inconsapevole mentre domini lo schermo, a farci sorridere e scuotere la testa allo stesso tempo.
E tu, Fox… continua pure a “gestire la community”.
Qualcuno dovrà pur spegnere le luci quando finisce lo show.