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sabato 27 settembre 2025

La Domatrice di Regole e il Peluche Parlante

 Un monumento al controllo emotivo.

La donna che parla anche ai cavalli ma con frasi composte, usa il punto e virgola con fierezza e considera ogni forma di satira come una minaccia alla civiltà moderna.
Intransigente, precisa, inflessibile: il tipo di persona che avrebbe messo in riga anche Robespierre .

Al massimo un sorriso educato.
 Ha fatto del giudizio un’arte marziale.
Per lei ogni errore è una caduta morale, ogni leggerezza un segno di debolezza.
Corretta, composta, : la paladina dell’equilibrio e della coerenza.
Una roccia. Una colonna. Una sentenza.

Poi, all’improvviso: "orsacchiotto....."

E lì il mondo si ferma.

L’inflessibile si scioglie come burro in padella.
La regina di ghiaccio  abbassa il tono per accarezzare un peluche digitale.
"Orsacchiotto", capisci? In mezzo a una stanza pubblica, tra adulti consenzienti e testimoni confusi.

Ed eccolo, lui: l’Orsacchiotto.
in chat ha la presenza carismatica di un soprammobile IKEA: inutile, ma inspiegabilmente e freneticamente desiderato..

Viene chiamato “orsacchiotto” da una donna che non si scioglie nemmeno davanti a una bomba nucleare… ma per lui sì, per lui tira fuori le coccole  in pubblico.
E lui che fa?
Nulla.
Galleggia.
Pacioso. Passivo. Silenziosamente compiaciuto.
Un mix tra un panda narcotizzato e un segretario d’assemblea che si è perso lo statuto.

"Orsacchiotto" è uno stato mentale: quello di chi campa di attenzioni immeritate, incassando like, cuoricini e appellativi da peluche, mentre ,sotto sotto, considera le donne meno di un tutorial di YouTube sulle viti autofilettanti.

La vera domanda non è chi sia.
È perché.
Perché proprio lui?
Perché questo abbraccio semantico in pubblico a una figura che ha lo spessore di un savoiardo inzuppato?

Ah già… forse perché non la disturba. Non la contraddice. 
È il compagno ideale: morbido, innocuo e assolutamente marginale.




vvb Francesca

sabato 9 agosto 2025

Non temiamo l’intelligenza artificiale. Temiamo l’uso disumano che ne può essere fatto.

 Sono favorevole all’IA. Lo dico senza esitazione.

Perché credo che possa migliorare la medicina, amplificare la conoscenza, rendere accessibile l’educazione, prevenire disastri, semplificare la vita. Credo che l’IA possa fare per il nostro tempo ciò che l’elettricità ha fatto per il secolo scorso: cambiare tutto.

Ma proprio per questo, non possiamo permetterci di essere ingenui.

L’intelligenza artificiale non è buona né cattiva. È potente. Ed è il potere, come sempre, che va interrogato.
Chi lo gestisce? Chi scrive i codici? Chi decide a cosa serve e a cosa no?
E, soprattutto: chi viene ascoltato quando si pongono queste domande?

Perché se lasciamo che l’IA venga usata solo da chi ha interessi economici o strategici, finiremo per delegare scelte cruciali a sistemi che non conosciamo, creati da mani che non possiamo eleggere o contestare.

Sostenere l’IA non significa dire “sì” a tutto. Significa dire sì a un’IA trasparente, inclusiva, tracciabile.
Un’IA che lavora per il bene collettivo, non per il controllo centralizzato.
Un’IA che potenzia l’umano, non che lo sostituisce nei suoi diritti fondamentali.

Chi ama davvero la tecnologia, non la idolatra. La governa. La umanizza.
E oggi, non servono solo ingegneri. Servono filosofi, eticisti, cittadini vigili. Serve un nuovo patto sociale in cui il progresso non sia una corsa cieca, ma una scelta consapevole.

“Il problema non è l’intelligenza delle macchine. È l’assenza di responsabilità negli umani che le guidano.”


Parlare di IA non è più parlare di “futuro”.
È già qui. Scrive, diagnostica, prevede, ottimizza, crea. In certi contesti lavora meglio di noi; in altri, ci affianca e ci spinge a pensare in modi nuovi.
E va bene così. Il progresso non è il nemico.

Il punto critico è un altro:
Stiamo crescendo noi come società, allo stesso ritmo con cui cresce la potenza degli strumenti che stiamo creando?

Perché non è l’IA a dover essere "umana".
Siamo noi a dover restare tali.

Serve un pensiero lungo, non solo tecnico ma etico e culturale, capace di porre limiti dove serve e di incoraggiare dove è giusto farlo.
Non possiamo permetterci di vedere l’intelligenza artificiale come una bacchetta magica. Ma nemmeno come uno spettro distopico.
È uno strumento di potere. E, come ogni potere, chiede visione, maturità, equilibrio.

Siamo disposti ad accettare che l’IA modifichi il lavoro, ma chi protegge chi viene lasciato indietro?
Siamo entusiasti delle IA generative, ma chi si assicura che non riproducano i pregiudizi di chi le ha addestrate?
Ci affascina la capacità di prevedere comportamenti, ma ci stiamo chiedendo quanto della nostra libertà siamo pronti a cedere in cambio di efficienza?

Non serve essere pessimisti per porre queste domande.
Serve solo avere a cuore la dignità umana.

In definitiva, l’IA può essere lo specchio più potente che l’umanità abbia mai costruito: riflette ciò che siamo, moltiplica ciò che facciamo, amplifica ciò che scegliamo.
Se guardiamo dentro quell’immagine con onestà, potremmo uscirne migliori. Ma solo se non smettiamo mai di chiederci: “a chi serve davvero questo progresso?”

L’IA è una rivoluzione. Ma perché sia anche un’evoluzione, dobbiamo crescere noi. Come persone. Come cittadini. Come umanità.



Quando la terra trema sotto i nostri piedi

 Ogni mattina ci svegliamo e facciamo fatica a comprendere che per milioni di persone, in paesi lontani, il suolo sotto i loro piedi non è stabilità, ma instabilità. Il mondo sta affrontando uno dei momenti più bui della sua storia recente: conflitti che infuriano, aiuti che diminuiscono e una crisi climatica che non fa sconti.

Prendiamo ad esempio il Sudan. Oggi, metà della sua popolazione , circa 25 milioni di persone , è minacciata da una carestia estrema. Intere comunità sono private del cibo, dell’assistenza sanitaria, e vivono sotto l’assedio della guerra. Non è solo guerra: è una fame deliberata, una strategia usata come arma contro i più vulnerabili .

Oppure guardiamo a Gaza, dove la fame avanza e le narrazioni cominciano finalmente a cambiare, anche in Israele. Le immagini hanno forzato una riflessione collettiva: una crisi che da negata, sta diventando inevitabile da affrontare.

 Ma c’è anche la Terra che soffre: Tuvalu, un piccolo stato insulare del Pacifico, sta compiendo la prima migrazione pianificata dell’intera popolazione a causa dell’innalzamento dei mari. Un gesto che dovrebbe scuoterci, perché è un campanello d’allarme per il pianeta intero.

Siamo davanti a tre storie diverse, ma unite dallo stesso filo sottile: la fragilità della nostra specie. La dignità della vita, la sacralità dell’abitare, la necessità dell’aiuto non sono optional: sono diritti universali. Quando lo Stato sociale trema e le risorse scarseggiano, emerge la domanda più urgente che possiamo porre a noi stessi: che mondo stiamo costruendo?

Tre esempi che tratteggiano un quadro doloroso, ma indispensabile da raccontare, perché il primo passo verso il cambiamento è vedere la realtà con cuore e con occhi aperti.

This country begins the world’s first planned migration of a ..




Mãe palestina Amira Muteir com bebê de 5 meses Ammar na Cidade de Gaza 5/8/2025 REUTERS/Mahmoud Issa Purchase Licensing Rights

https://www.newyorker.com/news/the-lede/israelis-are-starting-to-talk-about-famine-in-gaza?utm_source=chatgpt.com


“La spiaggia” di Lattuada : quando il mare rivela, più che nascondere

 la spiaggia (1954) di Alberto Lattuada è un film di rara eleganza morale, che affronta con sguardo lucido e compassionevole l’ipocrisia borghese del dopoguerra. 

Ci sono film che sembrano semplici, quasi leggeri… e poi ti restano dentro.
La spiaggia  di Alberto Lattuada è uno di quei film silenziosi ma taglienti, che ti costringono a guardare ciò che preferiamo ignorare.

In una località balneare ligure, tra ombrelloni, villeggianti e convenzioni sociali, arriva una donna. È bella, elegante, educata.
Ma porta con sé un passato che, appena svelato, basta a farla diventare "l’altra", "l’indegna", "la colpevole".
È una prostituta.

 Intorno a lei si muove una comunità “per bene”, che accoglie con sorrisi e allontana con disprezzo non appena la facciata cade.
La spiaggia diventa teatro di un processo morale sommerso, dove la condanna non arriva mai apertamente, ma goccia dopo goccia — negli sguardi, nei silenzi, nei giudizi che si fingono difesa della decenza.

La spiaggia è un film che denuncia senza urlare, che osserva senza giudicare, che mostra senza compiacersi.
Un'opera che parla di doppi standard, di ruoli imposti, di moralismo travestito da civiltà.
E lo fa con una grazia visiva e narrativa che oggi appare ancora più moderna di quanto fosse allora.

È uno specchio. Non del passato, ma del presente che non cambia. In La spiaggia, Alberto Lattuada compie un gesto radicale: prende la luce, i sorrisi e la superficie spensierata delle vacanze borghesi e vi spalanca dentro l’ombra più scomoda dell’Italia perbene.

Non c’è retorica, non c’è compiacimento. C’è invece un lento scivolare verso la consapevolezza che il vero scandalo non è la prostituta in villeggiatura, ma la società che la giudica mentre si nasconde.

La spiaggia, luogo pubblico per eccellenza, diventa il campo minato della morale.
Non serve un tribunale: bastano gli sguardi. Bastano i sussurri. Bastano le madri che "pensano ai propri figli", i padri che "non vogliono problemi", le amicizie che si sciolgono con la stessa rapidità di un gelato al sole.

La protagonista ,interpretata con straordinaria sobrietà da Martine Carol , non è una donna fatale. Non seduce. Non chiede nulla. Ma il solo fatto che sia lì, tra “le persone perbene”, è visto come una provocazione.
Il suo corpo non è libero: è colpevole.

Lattuada, con tocco chirurgico, mostra la reazione isterica della società non alla minaccia reale, ma a quella simbolica. La donna è una figura disturbante perché interrompe il gioco delle maschere.
In lei, gli altri vedono riflessi i propri compromessi, i propri segreti. E per questo la rifiutano.

Raf Vallone interpreta Silvio, il sindaco: uomo progressista, empatico, persino affettuoso. Ma anche lui  nonostante le buone intenzioni  è prigioniero del proprio ruolo.
Silvio è l’uomo che tenta di difendere, ma senza esporsi davvero. Che prova pietà, ma non fino al sacrificio. Che vorrebbe proteggere, ma si arrende alla logica del gruppo.
Il suo personaggio è tra i più moderni del cinema italiano dell’epoca: un uomo che non è né carnefice né eroe, ma solo umano. E quindi, inevitabilmente, parte del problema.

Siamo nel 1954, ma La spiaggia anticipa molti temi che diventeranno centrali solo decenni dopo.

 Lattuada osserva tutto con compassione e lucidità. Non trasforma la protagonista in una vittima sacrificale, né in una martire. La racconta semplicemente come essere umano. E proprio per questo il film è ancora così potente oggi.






Un film immortale, dimenticato troppo spesso: Uno sguardo dal ponte (1962)

 Uno sguardo dal ponte (A View from the Bridge), film tratto dall’omonima opera teatrale di Arthur Miller.

Diretto da Sidney Lumet nella versione americana a teatro, ma portato sullo schermo da Sidney Lumet (1955) e poi da Sidney Lumet e Peter Brook . Il film è del 1962 con Raf Vallone, diretto da Sidney Lumet nella versione teatrale a Broadway eD è Sidney Lumet stesso a firmare la regia cinematografica francese/italiana.

Raf Vallone ne fu protagonista sia a teatro che al cinema , un ruolo simbolico della sua carriera.

Vallone è Eddie Carbone, un uomo lacerato tra amore, onore e gelosia. Immigrato italiano a New York, vive un dramma interiore che esplode nella tragedia.
Un personaggio profondamente umano, che Raf interpreta con potenza trattenuta e cruda sincerità.

C’è un cinema che non urla, ma scava. Che parla di ossessioni, silenzi, desideri repressi e confini (morali, culturali, emotivi).
Uno sguardo dal ponte è uno di quei film.  Sullo sfondo: Brooklyn, l’immigrazione, la legge non scritta dell’onore, e la fragilità dell’identità maschile messa alla prova.

C’è una ferita che non si vede, ma che brucia. È quella che consuma Eddie Carbone. 

Lacerato tra affetto e desiderio, Eddie ama la giovane nipote Catherine in un modo che non riesce a nominare. Non può, non deve. Ma il sentimento cresce, si contorce, si traveste da protezione, da gelosia, da giustizia.
E lo divora.

Eddie non è un mostro: è un uomo comune, colto in fallo da qualcosa che non sa gestire.
Il suo sguardo sulla nipote è quello di un adulto incapace di accettare il passaggio del tempo, il distacco, l'autonomia di chi cresce e l'attrazione di chi resta a guardare.

Intorno a lui, l'onore, le leggi non scritte della comunità italoamericana, la fatica dell’emigrazione, la mascolinità ferita.
Ma dentro, un dolore privato, segreto, che esplode in tragedia.

La sua attrazione non è mai mostrata in modo esplicito. È suggerita, repressa, dissimulata  e proprio per questo ancora più drammatica.
Arthur Miller ci mette di fronte all’ambiguità, al rimosso, a ciò che la società preferisce non vedere. E Vallone regala a Eddie un volto umano, tremante ma potente e terribilmente reale.

Uno sguardo dal ponte non è solo un film. È uno specchio scomodo su ciò che non si può dire, ma che esiste.





giovedì 7 agosto 2025

Adoro anche la stronza che c'è in me, non sempre esce fuori, ma quando si mostra è uno spettacolo.

 


Tra le cose di mia nonna ho trovato spille, lettere e.......me

 

Amo le persone imperfette

 

Amo le persone imperfette. Non sopporto quelle che vogliono apparire perfette, perché le trovo artefatte ed insipide. Amo le persone imperfette, insicure e fragili. Con i loro difetti, i loro errori , le loro cicatrici nell’anima, perché hanno sofferto e conoscono le asperità della vita. E sanno ascoltare e comprendere gli altri. Talvolta sono difficili ma sono sempre vere e sincere, le persone imperfette. (Agostino Degas)




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Ho imparato a riconoscere chi c’è e chi non c’è,a fare da sola, a essere forte, ad avere una soluzione per ogni problema, o almeno fingere di averla. Ho imparato a contenere, a disarmare, a costruire e a smontare. Ho imparato ad avere certezze per poterle raccontare e a camminare sul filo a occhi chiusi, sorridendo. Ho conosciuto l’ansia e la paura , ho conosciuto la felicità e il terrore di perderla, ho conosciuto la vertigine dell’eternità che dà un senso agli anni che passano . Se sono cambiata? Cambiare è un verbo piccolo per me.