Tim Burton deve essere molto soddisfatto del suo ruolo nella storia della settima arte. Al contrario del resto dei registi hollywoodiani, è uno che è riuscito a crearsi una nicchia tutta sua, fatta di parabole gentili e malinconiche, di universi personalissimi e visionari, con uno stile sofisticato e assolutamente inconfondibile, nonché contaminato dalle atmosfere espressioniste dei classici dell'horror del passato (quelli della Hammer tanto per intenderci) che ogni tanto colora con i suoi pastelli ultrakitch. Anche noi facciamo parte di quel microcosmo solo all'apparenza così minaccioso. Ne facciamo parte nel momento in cui sentiamo che le parole dei personaggi che animano i suoi film sono le stesse che sentiamo noi nel momento di massima solitudine e di estrema incomprensione.
Ed è esattamente questo ciò che lui vuole fare, partire dalla diversità per renderci tutti uguali, senza deludere mai le aspettative e costruendo storie che sono al servizio di un unico sentimento: l'amore vero. Burton ama e rispetta tutti, i vivi e i morti, i mostri e i normali.
Guardi un suo film e ti chiedi come faccia a fare tutto e così bene. La risposta è più facile di quel che si creda: perché possiede un talento che forse nemmeno lui sa di avere. Perché sposa il bianco e il nero (colori che ama moltissimo) con delle imponenti scenografie di stampo espressionista e miscela il tutto con delle partiture musicali da Oscar.
A noi non resta che dire di sì e sperare, ardentemente, che questo amore vero non abbia mai fine.
È come se con ogni suoi film, questo tenebroso punk geniale e fortunato, prendesse la mano dello spettatore e rinnovasse una promessa che suona grossomodo così: «Con questa mano dissipo i tuoi affanni ».
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