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venerdì 15 giugno 2018

“Era meglio quando le donne stavano a casa”…si può ancora dire?


Dal blog di Concita de Gregorio un post che ha suscitato numerose reazioni. E molte positive!




Eppure è fondamentale! Oggettivamente. Non abbocchiamo più allafake del tempo di qualità. Ne serve una quantità industriale, di tempo. E di qualità almeno passabile. E molto spesso, superati magari i momenti di maggior carico e fatica, le soddisfazioni, le vere e proprie gioie, le gratificazioni si raccolgono anche a casa. Per una stanza sistemata, un’idea creativa, un clima disteso a tavola, una macchia debellata, le scale ridipinte, una pianta regalata che non muore subito…
Per la verità, diciamolo, tutto può diventare brutto. E tutto bellissimo. Si può essere infelici su uno yacht e felici, innocenti, in un carcere di massima sicurezza. Il segreto, per ogni condizione, sta nel farlo alla presenza di Dio, chiedendo a Lui intelligenza, idee e calorie per far andare muscoli e mente. Ma torniamo alle nostre vite sistematicamente distratte dall’essenziale.
Ci siamo dimenticate, commentando, rilanciando, associandoci o dissociandoci dal post, noi, loro, i softhaters o i garbati supporters, di ripartire dall’ostinazione della realtà e di dar voce a chi di solito la usa per almeno un 48-52 mesi solo per urlare, piangere, ridere a crepapelle e dire no: i bambini?
Noi esseri umani, nati bambini a tutte le latitudini, abbiamo esigenze che qualcuno lì tra noi grandi e grossi deve sforzarsi di rimettere al centro.
Io credo che davvero sia necessario andare incontro alle necessità così diverse da donna e donna, riguardo all’equilibrio tra lavoro fuori casa e responsabilità di fronte alla famiglia; credo che sia meritorio cercare di offrire spazi di libertà alle donne (anche se per ora pare si tratti solo di bellissimi temi in classe di volonterosi scolari mentre i numeri raccontino tutt’altro. La maggior parte di noi lavora per necessità e vorrebbe più tempo per la famiglia). Ma più di tutto, forse, bisogna rimettere in ordine i sassi del muro. A partire da sotto. Gravidanza, puerperio, allattamento, svezzamento, e tutti quei periodi o stati o cose che raccontano da fuori questa inseparabile endiadi madre-figlio sono oggettivamente, irriducibilmente, primitivamente importanti. Necessitano di tempo. Di tutele, rispetto. Di silenzio intorno.
Non si tratta solo di cose “da fare” che quindi in fondo in fondo si possono pure lasciar “fare” ad altri. Si tratta di essere. Di esserci. Del fatto che io, come Michela, come Silvia, come Anna, Costanza, Elisabetta, Laura, siamo mogli e mamme. Che dotate di utero, ovaie, tube, circuiti ormonali fisiologici possiamo concepire e portare a compimento gravidanze, cioè permettere vite altrui. Che dotate di seno possiamo allattare. Possiamo e direi che dobbiamo. Non siamo in ballo solo noi

Che effettivamente, in fondo in fondo, ha ragione MichelaAnche con un lavoro perfetto, anche con tutte le flessibilità del caso, essere madre di figli (fosse anche uno solo) e moglie di un marito (uno, uno solo! Almeno su questo, occidentali, teniamo botta!) significa appartenere in un certo senso a loro e con loro sfuggire all’industria. Noi siamo prima, siamo sopra, attorno, fuori dall’insieme di macchine, vie di trasporto, punti vendita. Siamo quella parte selvaggia che sfugge alla produzione. Possiamo al massimo essere re, regine, principi di un regno e pure principali di una fabbrica per dare da mangiare ai nostri figli e un aiuto a migliorare il mondo. Ma non siamo risorse.

E forse arriveranno addirittura i tempi in cui saremo tanti a pensarla così e non lo dovremo andare a scrivere su nessun giornale o social network.

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