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domenica 17 novembre 2024

"Parthenope": Un Tramonto su Napoli, Ma Senza Trama

 




"Parthenope", il film che si prefigge di raccontare la mitica e storica Napoli, sembra essere la perfetta espressione della frase "quando la forma prevale sulla sostanza". È come se qualcuno avesse preso una brochure turistica della città e avesse cercato di trasformarla in un'opera cinematografica, ma con il risultato che il film finisce per sembrare una cartolina animata piuttosto che una storia vera.

Il regista sembra aver pensato che bastasse inserire qualche scena con il golfo di Napoli sullo sfondo e un po' di musica tradizionale per rendere il film "autentico". Non importa che la trama sia inesistente o che i dialoghi sembrino usciti da un manuale di stereotipi, l’importante è che il "mood" sia giusto. Perché, diciamocelo, che cosa importa se i personaggi sono più piatti di una pizza Margherita mal preparata, se c’è il Vesuvio sullo sfondo?

La sceneggiatura, poi, è un vero capolavoro di confusione. Ogni scena sembra una scatola di regali, ma all’interno non c'è nulla di interessante, solo fumo e luci. I personaggi sono così bidimensionali che sarebbe più facile interagire con una statua di San Gennaro. L'interpretazione degli attori? Beh, è difficile dire se siano stati scelti per le loro doti recitative o per la loro capacità di sorridere mentre osservano il mare. Ma, d'altronde, chi ha bisogno di profondità quando si può semplicemente fare un'inquadratura spettacolare?

A proposito di inquadrature, il film è un tripudio di panorami mozzafiato. Peccato che siano lì solo per dare l'illusione di profondità emotiva, come se un paesaggio incantevole potesse compensare la mancanza di una vera trama. Ma, naturalmente, tutto è perfetto, tanto il pubblico sembra disposto a chiudere un occhio su ogni falla narrativa pur di ammirare un altro tramonto su Posillipo.

In conclusione, "Parthenope" è un film che sembra più un esercizio di stile su quanto sia bella Napoli che un tentativo di raccontare una storia interessante. Se il vostro obiettivo è vedere delle bellissime immagini mentre vi addormentate sulla poltrona del cinema, allora questo è il film che fa per voi. Se invece cercate una trama, un po' di emozioni vere o un minimo di coerenza, vi consiglio di dare un’occhiata al prossimo documentario sul caffè napoletano.In conclusione, "Parthenope" è un film che sembra più un esercizio di stile su quanto sia bella Napoli che un tentativo di raccontare una storia interessante. Se il vostro obiettivo è vedere delle bellissime immagini mentre vi addormentate sulla poltrona del cinema, allora questo è il film che fa per voi. Se invece cercate una trama, un po' di emozioni vere o un minimo di coerenza, vi consiglio di dare un’occhiata al prossimo documentario sul caffè napoletano. Almeno lì troverete qualcosa di più interessante di un tramonto.

La protagonista di Parthenope è un perfetto esempio di come il cinema possa trasformare un personaggio potenzialmente interessante in una figura piatta e senza spessore. È come se l'intenzione fosse quella di mostrarci una donna forte e affascinante, ma il risultato è un'incredibile caricatura di stereotipi. Tra una battuta banale e un altro sguardo misterioso, sembra che il suo unico scopo nel film sia accumulare uomini come fossero collezioni di figurine, senza mai davvero approfondire cosa ci sia dietro queste dinamiche superficiali.


La sua figura è trattata con una leggerezza che rasenta la superficialità: il suo fascino non è mai esplorato come una complessità emotiva, ma come un mero strumento per ottenere attenzione maschile. Ogni suo gesto sembra calcolato per suscitare il desiderio, ma mai per instaurare una connessione autentica. È come se il suo personaggio fosse intrappolato in una danza incessante di sorrisi e sguardi, ma senza mai dare l'impressione di essere realmente presente, di vivere qualcosa di profondo o di sincero.

Quello che manca, però, è una vera evoluzione: la protagonista non cambia mai, non cresce, non mostra vulnerabilità o conflitti interiori. Rimane unicamente una pedina nell'intricata partita di seduzione e conquistare, sempre a caccia di nuove emozioni effimere. E, nel frattempo, il film la dipinge come una sorta di femme fatale da manuale, ma senza quel fascino ambiguo che solitamente rende questi personaggi intriganti. Qui, invece, è solo un'ombra, un'icona vuota che non suscita nient'altro che disinteresse.

"Il Gladiatore 2": Una Macelleria Cinematografica Senza Pietà

 






Se il cinema è arte, "Il Gladiatore 2" è un oltraggio alla sua stessa essenza. Ridotto a una macchinazione di mercato, un relitto di nostalgia senza anima, il film tenta disperatamente di ricatturare l’eco dell’acclamato originale del 2000, ma lo fa con una premeditazione cinica e un’accumulazione di cliché da far rabbrividire anche i fan più devoti. Quel che resta di Ridley Scott, ormai schiavo della sua stessa leggenda, è un cadavere appesantito da un copione che si ostina a vivacchiare, incapace di risollevare un’eredità ormai compromessa.

La trama, che gioca su una parvenza di continuazione senza una direzione, è un'accozzaglia di epiche frasi fatte, battaglie che sembrano uscite da un videogioco di seconda mano, e un protagonismo da leggenda che non ha più nulla di eroico. Maximus, in qualche modo, ritorna, ma in una forma tanto distorta e disincarnata da far sembrare il suo personaggio un simbolo vuoto, ridotto a mera macchina da guerra emotiva, privo di qualsiasi spessore psicologico. La mancanza di una vera spinta narrativa e la confusione temporale fanno sembrare il film una forzatura, una mano che tenta goffamente di afferrarsi al passato, senza mai afferrare nulla di concreto.

E non è solo la trama a crollare sotto il peso del fallimento. Il comparto visivo, che ai tempi del primo film faceva vibrare la carne con la potenza delle sue battaglie, è ora una parodia di sé stesso. Gli effetti speciali, abbandonati nella speranza di mascherare la mancanza di scrittura, si rivelano un’esibizione gratuita di pixel e carneficine, un fluire incessante di sangue e sabbia che diventa stancante ben prima dei titoli di coda. La sensazione è quella di un affresco in cui ogni pennellata è stata appesantita dalla consapevolezza che, se non fosse per il marchio di Scott, nessuno avrebbe creduto a questa farsa.

I dialoghi? Un insulto alla lingua, un volo pindarico di epici luoghi comuni che sono solo rumore. Nessuna verità, nessuna poesia. Solo il tentativo di riprodurre l'effetto che il primo film aveva creato, con frasi che suonano come il disperato tentativo di ricopiare l’intensità del passato senza capirne la profondità. "Il Gladiatore 2" non ha nulla da dire e lo dice in modo fastidiosamente retorico.

Anche la performance degli attori è ingabbiata dalla medesima sterile esibizione di sguardi e pose monumentali. Nulla che possa scaldare un cuore o provocare un'emozione sincera. Le loro interpretazioni sembrano più relegate a una pantomima, parte di una coreografia posticcia dove il talento è sepolto sotto il peso della produzione. Russell Crowe, benché presente solo come ombra, sebbene ridotto ad una presenza evanescente, riesce comunque a far apparire tutti gli altri attori come meri figuranti. La sua assenza è palpabile, ma la sua presenza, tragicamente, lo è altrettanto.

La verità è che questo sequel non è solo un film fallito; è un colpo mortale inferto alla memoria del primo "Gladiatore". Dove il film di Scott riusciva a coniugare introspezione e spettacolari battaglie con una poesia struggente, "Il Gladiatore 2" non è che un banale esercizio di marketing, un'inutile emulazione di qualcosa che non può essere replicato. È come osservare una statua che perde pezzi ogni volta che qualcuno tenta di ripararla, fino a diventare una caricatura della sua forma originale.


Inoltre,come se non bastasse, Il Gladiatore 2 non solo massacra la memoria del suo predecessore, ma affonda ulteriormente nella mediocrità con una colonna sonora inesistente. Dove Hans Zimmer aveva saputo trasformare la musica in un’entità vivente, capace di sostenere l’epicità del film, qui c'è solo silenzio. Non si sente alcuna intensità, nessuna melodia che possa evocare emozioni. Ogni scena che dovrebbe essere esaltata dalla musica è lasciata morire nel vuoto, con un sottofondo generico che pare solo un fastidioso riempitivo. Se il primo film viveva grazie a quella sinergia tra immagini e suoni, questo sequel non è che una triste marcia funebre priva di qualsiasi impatto sonoro.


Ah, il protagonista di Il Gladiatore 2! Quella faccia da Osvaldo il barista della piazzetta, con la stessa espressione perennemente perplessa e stanca di chi ha appena servito l'ennesima grappa a un cliente che non sa nemmeno cosa chiedere. Si potrebbe pensare che abbia appena ricevuto una notizia sconvolgente: "La tua carriera da gladiatore, in realtà, è solo un brutto sogno". Invece, no, è l'espressione costante di un uomo che sembra chiedersi: "Ma che ci faccio qui? E perché mi stanno pagando per fare finta di combattere?" Il suo sguardo, che oscilla tra il "ho appena fatto il pieno al diesel" e il "non ho proprio voglia di essere qui", è una tela vuota, incapace di reggere il peso di un’eredità che, a quanto pare, gli è stata messa sulle spalle come una giacca troppo larga.

Non che il volto sia completamente indifferente, eh, è capace di esprimere qualcosa: confusione. Quella stessa espressione che probabilmente avremmo tutti noi di fronte a un copione così imbarazzante. Eppure, la sua faccia, da barista senza passione, ci ricorda che, seppur con una spada in mano, la vera lotta di quest’uomo sembra essere contro il sonno e la noia.

Mancavano solo Willy il coyote e Bip Bip.


by francesca

sabato 2 novembre 2024

EREDITA' SILENZIOSA

 Ci sono assenze che diventano parte della vita come una seconda pelle, impercettibili e potenti, capaci di scolpire il tempo in un modo diverso. Quando chi si ama non c’è più, la vita stessa si trasforma in un dialogo sospeso, un racconto senza fine fatto di frammenti, ricordi e silenzi che parlano. È come se le cose di ogni giorno - un profumo nell’aria, il suono di una parola familiare, un gesto abituale - si riempissero della loro presenza, ricomparendo nei dettagli minimi e silenziosi che fanno da cornice alla quotidianità.

L’assenza, in fondo, non è mai solo vuoto: è un filo invisibile che lega e avvolge, un richiamo costante che insegna a cercare oltre ciò che si può toccare. E si impara a vedere e ascoltare in un modo nuovo, scoprendo che anche nell’invisibile c’è una forza, una guida, un affetto che non smette di esistere.

Emerge un senso di gratitudine, profondo e immutabile, per ogni frammento condiviso, per le parole che hanno lasciato un segno, per il calore che si è radicato nel cuore. Come un’eredità d’amore, si scopre che la loro impronta non svanisce, ma cresce insieme a noi, come radici che si fanno profonde e ci tengono saldi, anche quando il vento soffia forte.

Così, nel silenzio di chi non c’è, si trova ancora una guida. Ogni passo diventa un omaggio silenzioso, un atto di memoria che porta con sé ciò che è stato, e che continuerà a vivere in ogni scelta, in ogni atto di amore, in ogni speranza nutrita. Forse, è proprio in questo intreccio invisibile di presenza e assenza che la vita trova il suo respiro più vero.




giovedì 17 ottobre 2024

Sant'Ignazio di Loyola: Il Tempio del Mistero tra Luce e Ombra

 La Chiesa di Sant'Ignazio di Loyola, nel cuore pulsante di Roma, è un portale che sembra custodire il mistero del divino e dell'umano, in un'armonia perfetta di luce e ombra, bellezza e inquietudine. Già dall’esterno, la sua facciata barocca accoglie con una semplicità solenne, come se volesse nascondere il suo vero segreto dietro una parvenza di sobrietà. Ma varcato il portone, l’anima si trova catturata in un vortice di sensazioni contraddittorie: un senso di purezza che si scontra con un macabro silenzio, quasi innaturale.

All’interno, l'illusione diventa padrona. Gli affreschi della volta creano un cielo che si srotola sopra il visitatore, dissolvendo il confine tra il terreno e il celestiale. Andrea Pozzo, con il suo genio pittorico, ha ingannato il tempo e lo spazio: la cupola che non esiste si materializza davanti agli occhi di chi osa alzare lo sguardo, sospesa come un miraggio. Un trucco ottico, un artificio tecnico, eppure sembra parlare di un mondo ultraterreno, distante e inarrivabile, dove la razionalità si dissolve.

La navata centrale è un'esplosione di colori dorati e toni cupi, un gioco di contrasti che danza sotto la luce tremolante delle candele. Qui, la bellezza diventa quasi opprimente, il dettaglio talmente minuzioso da sembrare frutto di una volontà superiore. Il pavimento di marmo lucido riflette gli affreschi della volta, creando un doppio mondo, come se i confini tra il sopra e il sotto fossero irrimediabilmente confusi, richiamando alla mente il labirinto dell’anima umana.

Ma non tutto in Sant'Ignazio è luce. C'è qualcosa di inquietante, come se le pareti stesse custodissero un segreto antico, un mormorio di preghiere sussurrate nei secoli, che si perdono nelle ombre. I santi, congelati nel marmo e nel gesso, sembrano osservare con sguardi fissi e impenetrabili, guardiani di un mistero che non può essere svelato. C'è un senso di morte che aleggia in questa magnificenza: il trionfo del divino, forse, sulla mortalità umana. I corpi scolpiti e dipinti sembrano pronti a risvegliarsi, quasi a ricordarci che, dietro la bellezza eterna, si cela sempre una forma di fragilità.

Eppure, nonostante questo richiamo al macabro, la purezza delle linee è innegabile. Le colonne, maestose e slanciate, si ergono verso il cielo con un’eleganza che sfida la gravità. Le forme curve e i motivi dorati abbracciano lo spazio senza forzarlo, creando un’armonia che sembra provenire da una perfezione ultraterrena. C’è una matematica divina, una logica mistica nel modo in cui tutto si combina: una simmetria che, paradossalmente, rivela l’impossibilità di comprendere appieno il mistero che Sant'Ignazio custodisce.

In questo luogo, ogni passo rimbomba come un eco lontano, ogni sguardo si perde in una dimensione altra, sospesa tra la vita e la morte, il terreno e l’eterno. La chiesa di Sant'Ignazio di Loyola non è solo una cattedrale, ma una soglia: un portale tra ciò che vediamo e ciò che ci è nascosto, tra la bellezza abbagliante e il macabro segreto che, forse, non vorremmo mai svelare.




L'amore è... sopportarsi e sorridere mentre si brucia la cena!

 

L'amore è un'avventura straordinaria, dicono. Ma diciamocelo, a volte è più simile a una serie di prove di sopravvivenza in una cucina disordinata. Immaginate la scena: tu e il tuo partner decidete di cucinare insieme una romantica cena a lume di candela. Che meraviglia! Finché non arriva il momento di scegliere chi taglia le cipolle... ed è lì che inizia la vera sfida d'amore.

Amarsi è facile, sopportarsi è un'arte!

Sì, perché l'amore non è solo quello delle passeggiate al tramonto o delle dichiarazioni appassionate. No, signori miei, l'amore vero si vede quando l'altro lascia sempre il dentifricio aperto, o quando tu metti le calze stese in giro per casa come fossero parte dell'arredamento. E mentre nel mondo dei film romantici il dramma è sempre emozionante e perfetto, nella vita reale il massimo della tensione è decidere chi deve scendere a buttare l'immondizia sotto la pioggia.

Ma sapete qual è la bellezza di tutto questo? L'amore è proprio quella magica capacità di sopportarsi... e riderci su!

"L'amore è pazienza, l'amore è attesa" – O l'amore è chi prende l'ultima fetta di pizza?

Perché in fondo, l'amore non è solo sentirsi le farfalle nello stomaco quando ci si guarda negli occhi. È anche riuscire a dividere la pizza (quasi equamente, diciamo) e non perdere la pazienza quando l'altro dimentica il compleanno del gatto.

Amarsi significa accettare le piccole stranezze dell'altro – i tic, le manie, quel fastidioso vizio di parlare durante i film più emozionanti – e capire che, in fondo, la perfezione non esiste. O meglio, esiste, ma è imperfetta. Ed è proprio questo il bello!

Il segreto? Amarsi... ma anche sopportarsi (con stile)

Allora, come si fa a mantenere viva la fiamma senza lasciarsi travolgere dalle piccole seccature quotidiane? La risposta è semplice (più o meno): prendersi poco sul serio, ridere insieme e ricordarsi che sì, l'amore è una cosa seria, ma non deve essere per forza noioso o drammatico.

Ricorda, l'amore vero non è mai senza difetti. È quando quei difetti diventano motivo di sorrisi invece che di stress, che si capisce davvero cosa significa amarsi.

Quindi, la prossima volta che la cena brucia e la cucina sembra uscita da un disastro naturale, fate un respiro profondo, guardate il vostro partner e... rideteci su! Forse la pizza arriverà con 40 minuti di ritardo, ma l'amore, quello vero, può sempre aspettare un po' (e sopravvivere anche a una serata senza cena gourmet).


In conclusione: Amatevi tanto, sopportatevi un po', e non dimenticate mai di divertirvi lungo la strada... anche quando è un po' accidentata!




domenica 13 ottobre 2024

STORIE DA SCOPRIRE

 Lucrezia Borgia-----sotto il manto di Roma


La terra di Sarah


Galateo---una vita tra saggezza e passioni


Pirandello-----vite inverse



Dedicati a chi mi ha voluto bene, a chi ha saputo leggere oltre e a chi ha scelto di andare via... rimane un po' di rimpianto. il rimpianto accompagna i miei passi a volte, ...porto sempre con me tutto ciò che è stato. 






Mercato centrale, storia e curiosità di uno dei simboli di Livorno

 Progettato da Angiolo Badaloni e inaugurato nel 1894, conserva tutt'oggi intatto il suo fascino


E' uno dei luoghi simbolo di Livorno, capace di entrare immediatamente nel cuore sia dei semplici avventori che dei turisti di passaggio nella nostra città. Stiamo parlando del Mercato delle Vettovaglie (noto anche come Mercato centrale), il maestoso edificio costruito sugli Scali Aurelio Saffi lungo il Fosso Reale al cui interno si mescolano gli odori di pesce, carne, frutti e verdure. Al suo interno, tra i numerosi banchi, si respira un'atmosfera particolare, quasi di altri tempi, come se il tempo, qua, si fosse fermato.

Mercato delle Vettovaglie, costruzione e significato simbolico

Il Mercato, costruito a partire dal 1890 e inaugurato il 28 febbraio 1894, venne realizzato su impulso del sindaco Nicola Costella, il quale, per rilanciare l'economia cittadina colpita dalla crisi provocata dalla nazionalizzazione del mercato italiano, diede impulso ad un vasto programma di opere pubbliche. Il progetto fu affidato ad Angiolo Badaloni e all'edificio venne dato un forte valore simbolico: la sua posizione tra la città vecchia, nella zona tra la Fortezza Vecchia e la Fortezza Nuova, e la città nuova, estesasi oltre il Fosso Reale tra il XVIII ed il XIX secolo, non è infatti casuale e vuole sottolinearne la sua accessibilità ad ogni ceto sociale dando nuovo lustro all'immagine della città. Il Mercato delle Vettovaglie, però, fu costruito anche per esigenze funzionali: il precedente mercato di piazza delle Erbe non era infatti ritenuto idoneo a soddisfare le esigenze di una popolazione in costante crescita, tanto da venir considerato un potenziale focolaio di infezioni.

Mercato-13
Mercato-13

Mercato delle Vettovaglie, la seconda guerra mondiale e la restaurazione

Durante la seconda guerra mondiale l'edificio, colpito dai bombardamenti, riportò gravi danni. Gli americani inoltre, una volta arrivati a Livorno, utilizzarono la struttura, composta da tre grandi padiglioni, come garage per automobili. A termine del conflitto, tuttavia, l'amministrazione comunale e i cittadini si adoperarono affinché il Mercato venisse riportato alle sue finalità d'uso originarie, con i lavori di ricostruzione e ristrutturazione che riportarono l'edificio all'antico splendore. Interventi di manutenzione, poi, si sono susseguiti nel corso degli anni, con l'ultimo piano del Mercato che, a partire dal 1988, è stato adibito a conservare una parte di archivio storico e un fondo bibliotecario, simboli della memoria del popolo livornese.

Mercato delle Vettovaglie, fonte di ispirazione per attori e artisti 

Il Mercato delle Vettovaglie è stato frequentato da alcuni tra i maggiori attori, comici e artisti del nostro Paese. Gino Bramieri e Walter Chiari, ad esempio, amavamo muoversi tra i banchi dell'edificio ascoltando le storie di commercianti e cittadini per prendere spunti per i loro spettacoli. Nel secondo piano della struttura, adibito per ospitare uffici, c'era inoltre l'atelier del pittore Amedeo Modigliani, uno dei personaggi livornesi più celebri a livello internazionale.




















https://www.livornotoday.it/social/mercato-centrale-livorno-storia-curiosita.html