Benvenuti

Benvenuti

martedì 20 aprile 2021

"Voglio per forza un figlio fenomeno"

 

Il caso Agassi ha fatto letteratura: il suo best seller Open ha alzato un velo. 

 Lui però almeno è diventato Agassi. Uno su quanti?

Non sorridono mai. Si allenano fino a sedici ore alla settimana, in quarta o quinta elementare, per quella partita del weekend. E se sbagliano un colpo, spesso vedrete questi Federer e Sharapova miniaturizzati guardare subito papà o mamma. Seduti su quelle tribune dove tanti genitori fanno molto più spavento di loro. "La mia squadra ideale è una squadra di orfani" è la vecchia battuta che gira tra allenatori. Un paradosso, ovviamente.
Ma la normalità che non fa più notizia è fatta di risse a bordocampo alle partite dei ragazzini, arbitri insultati e aggrediti, allenatori contestati. Ogni maledetta domenica, e il sabato pure. Qualsiasi istruttore giovanile, di qualsiasi sport, sa che una parte importante e difficile del suo lavoro è "allenare" i genitori. 

La linea di campo tra gioco e stress per il bambino è sottile, quanto quella tra il buon genitore che si limita a far capire l'importanza formativa della disciplina e dell'impegno e quello che invece invade, soffoca, s'arrabbia, giustifica, pretende.
 "I genitori più pericolosi e invadenti sono quelli che non si sentono realizzati e hanno meno cose da fare nella vita" sostiene Isabella Gasperini, psicoterapeuta dell'età evolutiva che collabora con varie squadre di calcio. "E in dieci anni la situazione è peggiorata di pari passo con l'aberrazione del calcio professionistico. Senti questi genitori parlare delle partite dei figli come se fosse serie A: la tattica, il mister... Purtroppo avvertire che questi comportamenti fanno solo danni è inutile: sono meccanismi involontari. Quello che cerco di far capire è che i bisogni dei bambini sono diversi dai loro. I bambini accettano l'errore e il fatto che un altro sia più bravo come una cosa naturale, e invece li vedi costretti a impegnarsi per realizzare i sogni dei genitori dietro la rete secondo un loro tacito e insano accordo. Vanno invece lasciati liberi: di sbagliare, di creare, di calciare come gli viene, di sdraiarsi a guardare il cielo se non hanno voglia di correre, di seguire l'istinto. Liberi anche di assumere le proprie responsabilità e di cavarsela da soli, se un compagno gli ha messo le scarpette sotto la doccia ".

La mala educación tocca l'apoteosi intorno al campo da calcio, dove rispetto ad altri sport il miraggio di ricchezza è più abbacinante. "Quando i genitori vedono il bambino solo come una possibile fonte di guadagno, è finita - dice Devis Mangia, ex ct dell'Under 21 - . Tutti pensano di avere il campione in casa. Quando un ragazzino si comporta male costa meno fatica etichettarlo come piantagrane. Ma, al contrario di quanto si possa credere, non è detto che subisca maggiori pressioni chi viene da contesti culturali e sociali inferiori, dove un contratto da professionista potrebbe rappresentare una svolta per tutta la famiglia". Lo conferma anche Roberto Meneschincheri, responsabile dell'attività agonistica under 16 dello storico Tennis Club Parioli di Roma, il circolo che ha sfornato Pietrangeli, Panatta e Barazzutti: ultimo titolo vinto, il campionato italiano under 12 femminile. "È questione di istinto e carattere, non di denaro o laurea: i genitori troppo pressanti che chiedono ai figli solo il risultato sono molto diffusi. Col dialogo di solito si riesce a ottenere collaborazione, a far capire che non va data troppa importanza alla partita" .
Molte società fissano un decalogo dell'ovvio. Sdrammatizzate, incoraggiate, esaltate i risultati positivi e alleggerite le sconfitte, non entrate in campo e negli spogliatoi, lasciate che la borsa se la portino da soli, non discutete con l'allenatore di schemi e ruoli, rispettate gli arbitri, non parlate male al ragazzo del suo allenatore e dei suoi compagni. Eccetera. Ma  Isidori non assolve nemmeno le società: "Dicono pensate a divertirvi ma il messaggio che di fatto viene trasmesso implicitamente dal sistema è un altro: conta solo vincere. Accade perché è completamente sbagliato il modello del Coni: le federazioni per avere soldi devono portare risultati. In Italia manca educazione sportiva perché non esiste lo sport per tutti: gratuito".

 "Purtroppo molti genitori provocano la cosiddetta "sindrome da campione": il ragazzo viene sopravvalutato, si sente già arrivato e si blocca il processo di crescita. Considera che sia tutto scontato e dovuto, pensa solo che gli basti far passare il tempo e andrà nella Nba. È come se entrasse in una realtà virtuale e non considera più l'opzione dell'insuccesso: se arriva una sconfitta la vive come un fattore imprevedibile, non trova una via d'uscita, resta disarmato perché è stato programmato per vincere. Ed è difficile a quel punto farsi ascoltare. Perché è più comodo dar retta a chi ti regala un alibi dando la colpa a un altro: all'ambiente, al tecnico, ai compagni, agli arbitri. Il talento non basta per diventare giocatori".